Memorie della mia vita

Il più lontano ricordo che io abbia della mia vita è il ricordo di una camera grande e alta di soffitto. Era di sera, in quella camera buia e triste; le lampade a petrolio stavano accese e coperte dal paralume. Ricordo mia madre seduta in una poltrona; in un’altra parte stava seduta una mia sorellina, che morì poco tempo dopo; era una ragazzina di sei o sette anni; di quattro anni circa maggiore di me. Io stavo tenendo in mano due piccolissimi dischetti di metallo dorato, forati nel centro e che erano caduti da una specie di fazzoletto orientale che mia madre portava in testa e che era ornato tutt’intorno con quei dischettini lucenti. Guardando i due minuscoli dischi credo che pensassi ai timpani, ai piatti, a qualcosa che avrebbe dovuto dare un suono, a qualcosa con cui si gioca suonando o si gioca suonando; ma la gioia che provavo a tenerli tra le mie piccole dita inesperte, come le dita dei pittori primitivi, e quelle dei pittori moderni, era legata certamente a quel profondo sentimento di perfezione che mi ha sempre guidato nel mio lavoro di artista. Quei dischetti perfettamente uguali, perfettamente combacianti e lucenti, con quel foro perfetto nel centro, mi apparivano allora come qualcosa di miracoloso, come più tardi miracoloso mi apparve l’Ermes di Prassitele nel museo di Olimpia e più tardi ancora il Ratto delle figlie di Lisippo, di Rubens, alla pinacoteca di Monaco ed alcuni anni or sono il famoso quadro di Vermeer di Delft, La padrona e la domestica, al Metropolitan Museum di Nuova York.

Giorgio de Chirico

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