Capitan Capotreno

I treni. D’estate ne prendo molti. Dal Piemonte alla Liguria, arrivando poco prima delle Cinque Terre, mi fermo a Framura. Sono in media quattro ore di viaggio per andare e altrettante per tornare. Viaggi su rotaie di pensieri leggeri all’andata (vado al mare… un miraggio di vacanza…) e di pragmatici propositi al ritorno (allora, questa settimana faccio quello, poi mi devo ricordare quell’altro e… ah già, il contratto e gli articoli da scrivere la mattina prima di cominciare in ufficio…).
Sul treno si legge. E si può anche scrivere, come sto facendo adesso, ma la tentazione alla lettura è fortissima. Tanto è vero che, al contrario di quanto succede in giro per la città, magari sui bus, nei parchi pubblici, dove tutti hanno il naso incollato allo schermo del cellulare (di solito attaccato alle orecchie dal cordone ombelicale delle cuffie), sul treno no. Sui regionali che portano al mare sussiste un patto di mutua lettura. Per tutti.
Cominciamo dal controllore. Solitamente è un tipo con la camicia azzurra stropicciata e un mazzo di chiavi attaccato alla cintura dei pantaloni. Ha una borsetta di cuoio nera appesa alla spalla sinistra che gli provoca continuamente dolori dovuti allo sbilanciamento del corpo. I controllori sono dei campioni di resistenza passiva alla forza di gravità in movimento. Devono restare in piedi malgrado le curve, le frenate e i sobbalzi del treno. Hanno dei polpacci grossi così! Sui treni estivi che vanno in Liguria i controllori lavorano una carrozza alla volta. Si piazzano in testa alla stessa, dove di solito si trova il bagno, e gridano: “C’è l’avete tutti il biglietto?” Noi passeggeri distogliamo lo sguardo dalle pagine del libri che stiamo leggendo e rispondiamo: “Siiii.” Allora, il controllore, soddisfatto del lavoro e della buona fede della gente, parte per un giro di ispezione. Si tratta di un controllo a campione, una verifica di routine, una passeggiata tra le file dei sedili per vedere la faccia dei passeggeri. Di solito lo fa trotterellando o saltellando compiaciuto, soffermandosi a sbirciare e leggiucchiare le pagine altrui.
“Scommetto che questo è Ibzenfruerr, Le pagine della dolcezza, sotterfugi per raccontare una storia erotica di primo livello, caramelle per l’immaginazione, sogni ad occhi aperti… Ma non si aspetti troppo dal finale.”
Niente richiesta di esibire il biglietto, nessun sospetto che quello poteva essere un viaggiatore portoghese anche perché si trattava di una bella signora in tailleur grigio con righe azzurre. Molta classe e nessun commento.
“E lei? Cosa sta facendo?” Il controllore si era fermato davanti a me, allargando leggermente le gambe e assumendo un’espressione sorridente e ironica.
“Come scusi?”
“Le ho chiesto… Cosa sta facendo?”
Stavo scrivendo. Sul tablet. Avevo aperto tutte e quattro le ribaltine del tavolo pieghevole che separa i quattro posti a sedere (simulando i vecchi scompartimenti) e ci avevo appoggiato le mie cose sparpagliando tutto in modo invadente, personale.
“Prendo appunti.” Era solo una piccola, minuscola bugia. Non avevo voglia di ingaggiare una discussione, ero stanco e anche un po’ ispirato perciò volevo soltanto essere lasciato in pace.
“Niente affatto! Lei scrive e con il tipico piglio degli scrittori piemontesi che sono creativi, precisi, amano le passeggiate sotto i portici e fumano sigarette d’importazione.”
Il controllore tirò fuori dalla borsetta di cuoio un sigaro toscano mezzo fumato e lo accese con dei fiammiferi da cucina. Una nuvola di fumo pesante e puzzolente invase la carrozza. Era un gesto che poteva essere interpretato come un segno di avvicinamento alla mia trasgressione (fumare era ovviamente vietatissimo) o come un gesto di sfida (io sono il controllore e faccio quello che mi pare). Sospirai. Mi aveva beccato e adesso voleva soddisfazione. Perciò abbassai lo sguardo, frugai nella tasca del mio zaino e estrassi il biglietto del treno, cercando di anticipare e compiacere le richieste che quell’uomo delle ferrovie mi avrebbe fatto da lì a tre minuti. Ma inaspettatamente il controllore alzò lo sguardo e, senza degnarmi di un “mi scusi un attimo” o “tornò subito” si lanciò in avanti come un segugio che ha annusato la preda. Andò due file più avanti, dove sedeva un ragazzo con gli occhiali, un cappello scozzese in testa e un grosso volume rilegato in tela verde sulle ginocchia.
“Favorisca il biglietto.” Disse il controllore.
“Il biglietto?”
“Esatto, il biglietto.”
“Ma ho risposto si alla domanda che ha fatto prima… Che bisogno c’è di…”
“Va bene, allora si tolga occhiali e cappello.”
“Ma cosa c’entra…”
“Per cortesia, tolga gli occhiali e il cappello.” Il controllore scandì le parole usando un tono tranquillo e fermo. Bisogna proprio dire che non c’era possibilità di aggiungere alcunché. Il ragazzo seguì le volontà del controllore e appoggiò i due oggetti sul tavolo, poi si rivolse col viso scuro e offeso verso quel capitano del convoglio. Il controllore sorrise e fulmineo come la frustata di un domatore, colpì con uno schiaffone quel giovane viso.
Il ragazzo sgranò gli occhi poi si guardò intorno e infine si massaggiò la mascella con una mano, indeciso se protestare o incassare e stare zitto.
“È un regolamento che risale a circa duecentocinquant’anni fa quello che mi autorizza a scegliere fra sanzioni pecuniarie o corporali. Non lo sapeva? Si figuri che nei primi anni della ferrovia i miei colleghi erano autorizzati a buttare giù dal treno in corsa i passeggeri trovati sprovvisti di biglietto. Ora, se per caso mi sono sbagliato e il biglietto lei c’è l’ha, allora la autorizzo a restituirmi la sberla.”
Il ragazzo abbassò lo sguardo e ritornò a leggere il suo librone.
“Stava parlando di appunti, non è vero?”
Era tornato da me. Nel frattempo avevo salvato ciò che avevo scritto e avevo ritirato il tablet e al suo posto avevo posato sul tavolo l’ultimo romanzo di Sberniev Ifstako Slimut terzo. Non lo avevo ancora incominciato.
“Un libro intonso è come l’isola misteriosa che il naufrago deve ancora esplorare…”
“Già, infatti.” Che cavolo stava dicendo?
“Mi sono distratto un attimo e lei ne ha approfittato subito. Poco cavalleresco da parte sua.”
Feci la faccia da finto tonto.
“Ma non è colpa sua… È questo mondo corrotto che ci contagia con la sua puzza di ipocrisia, falsità, scarso senso dell’onore, della giustizia e della morale.”
Delirava e intanto boccheggiava col toscano. Quella si che era una puzza da mozzare il respiro.
“Lei stava scrivendo e non appuntando. Non tenti di negarlo.”
Non tentai.
“Ma si ricordi che sui treni, su tutti i treni, per scrivere ci vuole un’autorizzazione speciale. Parlo di roba inventata, pensieri che si raggrumano diventando storie, fabbricazione di racconti, narrazioni e novelle. Quando si sfreccia sulle rotaie diventa molto più facile fantasticare. Non l’aveva notato?”
Si o forse no. Quando salgo su un treno mi rilasso e mi viene voglia di leggere. Se scrivo è perché mi sembra un’occasione unica. Se non becchi quelli che tentano di attaccare discorso per ammazzare il tempo, sul treno ti puoi concentrare senza essere disturbato. D’accordo, bambini strillanti a parte e comitive di scolaresche in gita.
“Gli scrittori adorano i treni. E come dargli torto? Arrivano, si siedono, aprono il portatile e via… cominciano a martellare la tastiera come pazzi in preda ad un’inattesa frenesia creativa. Gli arrivano idee a più non posso, non credono quasi a loro stessi, creatività e immaginazione a tonnellate, emozioni autentiche che prendono vita nelle loro pagine. Arthur Conan Doyle ha scritto tutto Sherlock Holmes sulla linea Londra – Bristol e ritorno. Naturalmente scriveva a mano con un pennino numero 36 della Wathermann. Del resto lo si capisce leggendolo. Quei due, Holmes e Watson, salgono e scendono dai treni come se fossero metropolitane leggere. Cose da matti.”
Matto lo era lui, quasi da rinchiudere. Ma era un matto simpatico.
“E non si tratta di ispirazione. Non è il rumore del treno che scorre sulle rotaie o il leggero movimento della carrozza che, tutta’l più, può conciliare il sonno, no! Si tratta di ben altro. Non lo indovina?”
Ma che cosa dovevo indovinare? Era già tanto se riuscivo a seguire quel discorso sconclusionato!
“Si tratta di furto.”
Aveva sparato la battuta come se si trovasse su un palcoscenico aggiungendo una pausa ad effetto a favore del pubblico. Solo che il pubblico ero soltanto io e non mi scomposi minimamente.
“Gli scrittori rubano i pensieri, i ricordi, le emozioni… Rubano le storie dei viaggiatori. E non solo di quelli che sono lì in quel momento ma anche di quelli del passato. Pazzesco eh?”
Ecco fatto. Aveva aperto le paratie della diga della razionalità e il liquido della ragione era straboccato chissà dove lasciando tutto il posto alla follia.
“Come minimo…” Dissi, cercando di assecondarlo e non contraddirlo. (Non so come mai, ma mi era tornato in mente il ceffone di prima).
“Avrà certamente notato che molti treni hanno i sedili con la stoffa strappata, consumata e mal ridotta.”
“Credo che lo abbiano notato tutti.”
“Beh, non ci crederà ma è una cosa voluta.”
“A costo di stupirla le posso dire che invece ci credo. Si chiama incuria, mal gestione, disinteresse per il bene comune e per i passeggeri.”
“Non le sembra troppo banale come spiegazione?”
“No, mi sembra realistica e ampiamente documentabile partendo dalla disastrosa qualità dei vostri amministratori e la follia dei loro stipendi.”
“Quello è un discorso a parte.”
Non ribattei. Non era il momento di fare discorsi da bar dove tutti sanno tutto e saprebbero fare meglio di tutti e via discorrendo.
“La tela dei sedili è letteralmente impregnata dei pensieri dei viaggiatori. Su quella stoffa si depositano le impalpabili particelle prodotte dal pensiero e vi rimangono intrappolate fino a che uno scrittore non ci appoggia la testa. In quel momento succede il miracolo creativo perché lo scrittore è l’unico in grado di percepire, catturare e utilizzare quella massa incredibile di vita vissuta.”
“E se a sedersi è un idraulico?”
“Non succede niente, al massimo scende dal treno di cattivo umore.”
“Perciò lei vorrebbe farmi credere che i sedili dei treni rappresentano un immenso deposito di pensieri memorizzati nella stoffa?”
“Esattamente.”
“E con i sedili di nuova generazione, quelli di plastica su cui si suda e si rimane appiccicati come degli insetti sulla carta moschicida, cosa succede?”
“Un disastro, ecco cosa succede. Su quelli non rimane niente, ma sono più facili da pulire.”
“Ecco.”
“Adesso capirà perché per scrivere sui treni ci vuole una bella autorizzazione, è una questione di diritti.”
“D’autore?”
“Quelli. Le ferrovie sono le uniche proprietarie di tutta quella massa di idee, pensieri, filastrocche, piccole storielle frivole, barzellette eccetera eccetera. Gli scrittori se ne devono rendere conto.”
“Si, ma senza gli scrittori le ferrovie sono proprietarie soltanto di vecchie stoffe sporche e puzzolenti, senza di noi (mi permetto di annoverarmi nella categoria) tutto quel materiale impalpabile è come se non esistesse perché non può prendere forma.”
“Giusta osservazione.” Al controllore si era spento il sigaro. Lo riaccese con l’ennesimo fiammifero da cucina.
“Lei fuma?”
Si, fumavo. Ma avevo paura che se mi fossi messo a condividere il vizio con quello strano individuo probabilmente me lo avrebbe fatto pagare in qualche modo. Comunque, prima che mi decidessi a rispondere, il controllore tirò fuori dalla borsetta di cuoio una bottiglia di birra da mezzo litro e la posò sul tavolo.
“Le spiace?” Mi chiese indicando il posto di fronte al mio.
“Prego.” Risposi, come se ci trovassimo al tavolo di un ristorante in centro.
“Immagino che non stia aspettando nessuno e, per quanto riguarda il giro di controllo, per oggi ho finito” disse indicando con un cenno verso il passeggero che aveva schiaffeggiato “ho pizzicato il mio trasgressore della giornata e posso ritenermi soddisfatto.”
Stappò la bottiglia tenendola con la mano e usando il pollice per far leva sul tappo in metallo.
“Lei, oltre che uno scrittore, mi sembra un uomo di buon senso.”
Con questa frase il controllore non si era accorto di avere fatto un passo falso. Uno scrittore, in quanto tale, non può essere un uomo di buon senso. Uno scrittore è, solitamente, un individuo con scarso senso pratico, incline alla distrazione e scarsamente a contatto con la realtà di coloro che non scrivono. Non ha buon senso perché, se lo avesse, non farebbe lo scrittore. Naturalmente ci sono le eccezioni, ma io non ne faccio parte.
“Cosa glielo fa credere?” Gli chiesi.
“Ha individuato immediatamente l’inevitabile collaborazione che si deve instaurare fra le ferrovie e gli scrittori per far si che tutto questo materiale prezioso venga alla luce. Non mi stupirei se avesse già intuito che si tratta di un affare colossale!”
Due boccali di plastica trasparente saltarono fuori non so da dove, e il controllore versò la birra con fare compiaciuto.
“Avanti, non sia timido, si beva questa birretta e si fumi il suo tabacco in santa pace. Garantisco io l’incolumità.”
Ed era proprio questo che mi preoccupava. Comunque un sorso di birra non rappresentava nessuna trasgressione perciò bevvi volentieri. Era una birra, non so come, fresca e buonissima.
“Di che affare si tratterebbe?”
“Di che… no, dico, ma dove è finito il suo buon senso?”
Appunto.
“Ma si rende conto che su questi treni, su tutti i treni, viaggiano centinaia di scrittori che scrivono viaggiando e, contemporaneamente, sugli stessi treni viaggiano milioni di persone che viaggiano leggendo… Abbiamo la produzione che convive e respira a stretto contatto con il consumatore finale, un’occasione unica…”
Mi stava proponendo qualcosa ma mi sfuggiva la combinazione. Gente che scrive e gente che legge, mi mancava un passaggio.
“Gli scrittori non devono fare nessuno sforzo. Salgono sul treno, appoggiano comodamente la testa sulla stoffa e… paf! Ricevono le storie, le canalizzano e le scrivono.”
“A parte il fatto che questi poveri scrittori dovrebbero portarsi dietro grandi quantità di shampo per lavarsi i capelli… Bisognerebbe potenziare i servizi igienici, i bagni…”
“Non c’è problema, lo consideri fatto.”
“E poi, manca l’editore. Tutto questo materiale bisognerebbe stamparlo per distribuirlo sennò come fanno a leggerlo i passeggeri?”
“Ma che ci vuole? Viviamo in un modo dove la divulgazione dei contenuti è rapida come il vento. Ci sarà un tizio che raccoglie il materiale, lo organizza e lo edita sotto forma di ebook. Che ne dice?”
In preda all’entusiasmo il controllare continuava a versare birra e riempire i bicchieri. Avevamo già bevuto almeno tre boccali. Ma com’era possibile? La bottiglia era appena da mezzo litro! C’era qualcosa che non quadrava.
“Si può sapere cos’ha da guardarmi con quella faccia?” Mi chiese il controllore.
Mi sentivo intorpidito. Avevo voglia di sgranchirmi un po’ le gambe, muovermi… Tutta quella birra probabilmente mi aveva stordito e mi accorsi che dovevo urgentemente andare in bagno. Aprii gli occhi. Poi li richiusi. Li aprii di nuovo. Il controllore era sparito, se n’era andato, chissà, magari si era offeso. Staccai la testa dal poggia testa di stoffa sporca e sgualcita e mi sbrigai ad andare in bagno. Quando ritornai al mio posto, mi accorsi di avere un sacco di idee in testa, roba inaspettata, che non mi apparteneva, ma che avevo voglia di organizzare scrivendo qualcosa.

Sul treno si legge. E si può anche scrivere, come sto facendo adesso, ma la tentazione di lasciarsi andare cullati dal tipico movimento costante e ripetitivo è grande… Perciò sul treno si dorme, ma soprattutto si sogna.

Samuele Marabotto

Commenti

Etichette

Mostra di più