Le sigarette

Ammetto, abbiamo fumato di tutto (o quasi tutto, sia chiaro). Figli di una generazione che fumava, fumava si, e che ebbe una delle soddisfazioni (poche o tante, vedete voi), all'uscita dalla guerra, di entrare da un tabaccaio e ordinare un pacchetto di sigarette senza tessera, senza restrizioni, senza laccioli di nessun tipo. Sempre che si avessero i soldi per comprare un intero pacchetto, naturalmente. Perchè le sigarette si vendevano anche sciolte: uno, metti, ne chiedeva cinque e il tabaccaio le infilava in una bustina trasparente o arrotolava destro un pacchettino con una schedina della Sisal, che era poi la nonna del Totocalcio.
Fumavamo tutto quello che potevamo, i ricchi forse ovali sigarette di profumati mèlange orientali, da pacchetti rettangolari di cartoncino con un pseudo-biglietto da visita inserito (per quali misteriosi appunti?), i più proletari trinciato forte (cascami di sigari?), che tenevano in scatolette metalliche fornite di cartine, rette da apposito gancio, con le quali si arrotolavano coraggiose e infumabili sigarette, come molti giovani di oggi, che si arrotolano il proprio veleno ma con tabacchi più umani.
C'erano, anche, gli eroici cercatori di cicche. Una categoria mitica, una vocazione, un desti no. Uscivano all'alba (così ci piaceva pensare), muniti di un bastone con un chiodo in punta, e infilzavano, ratti e alacri, qualunque resto di tabacco fosse stato lasciato da sibariti dissipatori sui marciapiedi. Insaccavano i preziosi cimeli e a casa, tagliata la parte bruciata delle cicche e spezzata la cartina restante (spero aiutati in ciò dalle fedeli mogli, modesto ma fulgido esempio di industri familiare), riempivano enormi cartocci di tabacco recuperato, che in piccola parte consumavano personalmente e in grande parte rimettevano immediatamente in circolazione, a prezzi più che modici.
Noi, quindi, dalla nascita, abbiamo respirato tabacco, prima che si scoprisse che "il fumo nuoce gravemente alla salute". Non c'erano divieti per fumatori quando noi, allora bambini, eravamo presenti. Non c'erano proibizioni nei cinema, nei ristoranti, nei bar, nè, tantomeno, nei peccaminosi night, eredi dei tabirin, dove, giovinetti, sognavamo di essere fra musiche languide, ammalianti donnine, whisky a piovere e, va da sè, volute e volute di fumo, possibilmente da aromatiche sigarette d'oltreoceano, dai nomi esotici e fascinosi, Chesterfield, naturalmente, e poi giù, con le Camel, e le Luchy Strike, le quali, si sussurrava, volevano significare forse "colpo fortunato" o "sciopero fortunato", derivato da un mitico sciopero che in qualche modo aveva cambiato, di sicuro in meglio, la qualità del tabacco.
Quindi eravamo fatalmente sospinti al terribile vizio.
Da bambini, ovvio, non fumavamo, ma a volte, nei nostri giochi, imitavamo gli adulti, fingendo di fumare delle ignobili sigarette di cioccolato, pretendendo di aspirare e di sbuffare l'immaginario fumo, e stavamo lì coi grandi che ci guardavano fieri. "Guarda, fuma!" dicevano allegri. "Ti piace fumare come il babbo, nevvero?", e noi assentivamo coglioni e felici.
Chiaramente, prima di arrivare alle vere e proprie sigarette, ci furono esperimenti. In montagna, per esempio, provammo con ramoscelli secchi della vitalba, tagliati a mo' di sigaro. Erano porosi e, accesi da una parte, tirando il fumo arrivava in bocca. Non lo respiravamo, però, perché sarebbe stato come fumare la spalliera di una sedia. Era un po’ come la sigaretta di cioccolato, col vantaggio che almeno c’era il fumo. Piuttosto che niente è meglio piuttosto, dice un proverbio locale. Qualcuno sosteneva che, alla bisogna, erano meglio i rametti di sambuco, più eleganti e di gusto di gran lunga superiore, ma la discussione fra le due teorie, anche accesa e provata dal vivo di recente, non addivenuta a conclusioni soddisfacenti.
Costruimmo anche eleganti pipette con la terra creta, cotte poi in improvvisati forni, dotate di apposito bocchino di legno di fico, e vi fumammo grande verità di foglie secche – di rosa, di noce, di vite e via andare - , discutendo su quale fosse la migliore.
Era apprendistato, ma erano sempre innocenti giochi di ragazzi.
La prima vera sigaretta ci fece passare al professionismo. Furata da un pacchetto in casa, fu guardata con tremore ed emozione; fu accesa e si provò a tirare, colpiti subito da un accesso di tosse, poi, continuando, da un leggero giramento di testa. Ma se i più grandi fumavano, qualche gusto ci doveva pur essere. Passamo quindi a provarci seriamente.
Il primo pacchetto acquistato allora, credo da tutti noi, fu un pacchetto di Giubek. In carta morbida giallina, recante un’effige di sfinge con barbetta e alcune palmette, erano le vere sigarette dei principianti, perché leggere e con filtro. Le credevo scomparse dalla circolazione, quando ho letto che sono ancora prodotte dopo un periodo di dimenticanza. Ma le Giubek avevano alle spalle una lunga storia. Uscirono ai primi del Novecento in pacchetto metallico da dieci, col nome Spagnolette (così allora venivano anche chiamate le sigarette) Giubek. Nel 1936 in piena guerra d’Africa, seguirono i destini imperiali della Nazione in pacchetto da venti prendendo il nome di “Giuba”, un fiume della Somalia. Finita l’ultima guerra e finito l’impero tornarono al normale sebbene esotico nome di Giubek (completo di sfinge e palmette), pronte a soddisfare i cauti gusti dei novelli fumatori.
Ma da bravi neofiti cominciammo a guardarci attorno, a spaziare, a cercare nuove emozioni. Passammo alle Mentolo (lo ammetto con una certa riluttanza), attirati da quel saporaccio di menta che probabilmente ci ricordava l'ormai perduta infanzia; provammo le Africa, conquistati forse dalla sensuale africana a seno nudo (uno solo, se non sbaglio) che si mostrava sul pacchetto; assaggiamo le Cowboy (uscite nel 1952), miscela americana, dicevano, con vaccaro che, sul pacchetto, allegro si impennava col lazo su un mustang - significativo lo slogan che le propagandava: "Nell'offerta di una sigaretta un invito all'amicizia" ; le Stop con filtro o senza. Poi, dopo, è stata un'orgia, di marche e di tipi.
Abbiamo provato, senza contare le tre classiche americane sopra dette (ma come saranno state le Old Gold, intraviste su un settimanale americano, sapevano davvero di mela, come la pubblicità lasciava indovinare? E poi, erano veramente sigarette?), le Craven "A", le Muratti, le Philip Morris, le francesi Parisienne, le Gauloises e le Galuloises Paiper Maìs (identiche, ma fatte con carta ricavata dal granoturco, folle desiderio di riva sinistra giovanile) le Gitanes, le Celtic, e vai col liscio, le Virginia, le Turmac, le Pall Mall, le Mercedes, le Kent, le Astoria, le Peter Stuyvesant e anche le Navy Cut, affascinati dal pacchetto rettangolare e da quel marinaio barbuto che spuntava dal salvagente, senza sapere che queste erano le sigarette che gli alleati gettavano ai partigiani in tempo di guerra, assieme ai più utili Sten. Perchè eravamo attirati più dall'estetica del pacchetto che dal sapore o dall'aroma delle sigarette in esso contenute.
Di tutto abbiamo fumato, in particolare quando, di sabato pomeriggio, andavamo in piazza dai contrabbandieri a comprare un pacchetto per far bella figura alla festina della domenica, e ci sembrava di acquistare chissà quale pericolosa droga. Poi, quando il vizio non è stato più un gioco ma qualcosa di quotidiano, dopo la prima coraggiosa ammissione casalinga (dopo mangiato: "Babbo, mi offri una sigaretta?" , "Perchè, fumi?" E da quando? E con quali soldi te le comprerai?"), quando il vizio è diventato una tassa giornaliera, allora siamo passati alle più casalinghe Nazionali Esportazione (ma dove le volevate esportare?) e, in tempi di crisi economica nera, alle Alfa, alle Sax, o alle Nazionali Semplici, chiamate ironicamente "N bleu" (pronuncia alla francese!), o "Napoleon".
Abbiamo fumato di tutto (o quasi tutto, sia chiaro). Il vizio è, purtroppo (o naturalmente, per fortuna) il vizio.
Come quella volta che, coraggiosi giovinetti, entrammo da un tabaccaio con dieci lire e chiedemmo una Nazionale.
Il tabaccaio fece, sornione: "Te la incarto o la fumi subito?!"

Francesco Guccini

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