Futilità

Ho imparato che niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto. Di per sé le cose sono amorfe: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso. Quando essa giunge al termine, le cose cambiano anche restando uguali. Ci sono e non ci sono, come spettri tangibili, condannati a sopravvivere in un mondo dove non hanno più posto. Che ne sarà, ad esempio, di un armadio pieno di vestiti in silenziosa attesa di essere indossati da un uomo che non aprirà l'anta mai più? O delle scatole di preservativi sparse nei cassetti rigurgitanti biancheria e calzini? O del rasoio elettrico abbandonato in bagno, ancora zeppo della barba polverizzata dell'ultima rasatura? O del manipolo di flaconi vuoti di tintura per capelli, nascosti nella borsa di pelle da viaggio?… Rivelarsi improvviso di cose che nessuno vuol vedere, che nessuno desidera conoscere. In tutto questo c'è violenza, e anche una sorta di orrore. In sé le cose non significano nulla, come gli utensili da cucina di una civiltà scomparsa; e tuttavia ci dicono qualcosa, imponendosi non in quanto oggetto, ma come avanzi del pensiero, della coscienza, emblemi di una solitudine ove l'uomo giunge a prendere le decisioni personali; se tingersi i capelli oppure no, se indossare l'una o l'altra camicia, se vivere o morire. E la futilità di tutto questo quando arriva la morte.

— P. Auster, L'invenzione della solitudine, Torino 1997, pp. 8-9

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