La casa d’un grande uomo

Ichna

Hanno scritto nel marmo a lettere d’oro:
Qui abitò lavorò e morì un grande uomo.
Questi viottoli li ha cosparsi di ghiaia lui.
Questa panchina – non toccare – l’ha scolpita lui.
E – attenzione, tre gradini – entriamo dentro.

Fece ancora in tempo a nascere nel momento giusto.
Tutto quel che doveva passare, passò in questa casa.
Non in caseggiati,
non in metrature ammobiliate ma vuote,
fra vicini sconosciuti,
ai quindicesimi piani,
dove sarebbe arduo trascinare scolari in gita.

In questa stanza meditava,
in questa alcova dormiva,
e qui riceveva gli ospiti.
Ritratti, poltrona, scrivania, pipa, mappamondo,
flauto, tappetino consunto, veranda a vetri.
Da qui scambiava inchini col sarto o il calzolaio
che gli cucivano su misura.

Non è come fotografie dentro le scatole,
biro seccate in un barattolo di plastica,
un vestito di serie in un armadio di serie,
finestre più vicine alle nuvole che alla gente.

Felice? Infelice?
Non di questo si tratta.

Ancora si confidava nelle lettere,
senza il pensiero che le avrebbero aperte.

Teneva ancora un diario puntuale e sincero,
senza paura d’una perquisizione.
Più di tutto lo inquietava il passaggio d’una cometa.
La fine del mondo era solo nelle mani di Dio.

Riuscì ancora a morire non in ospedale,
dietro un chissà quale paravento bianco.
Con ancora accanto qualcuno che ricordò
le parole del suo borbottio.

Era ceem se gli fosse toccata
una vita riutilizzabile:
mandava a rilegare i libri,
non cancellava dal taccuino i nomi dei morti.
E gli alberi che piantava dietro la casa
gli crescevano ancora come juglans regia
e quercus rubra e ulmus e larix
e fraxinus excelsior.

Wisława Szymborska

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