Castelli di paglia

Quel che connota spesso il risveglio dal sonno in un quartiere cittadino, è il brusco trapasso da uno stato di quiete ad una situazione di clamore. Volenti o nolenti, veniamo rapiti da una dimensione al puro stato d’essenza, per venir ricondotti ad una realtà limitata da un corpo e cinque sensi. Liberi di essere, torniamo improvvisamente prigionieri dell’essere, schiavi delle convenzioni e dei tabù, delle paure, dei dubbi, delle tentazioni e dei sensi di colpa, tutte fiere che quotidianamente insidiano la nostra esistenza.
Vivere o lasciarsi vivere, agire o subire, affrontare o eludere continuamente il nemico in agguato? Stà a noi la scelta. Crescere nella coscienza del proprio essere, vuol dire porsi nella condizione di poter agire nel modo che ci appare più opportuno, senza per questo dover rinunciare a ciò che siamo.

Le voci della gente, i motori delle automobili e gli echi dei loro clacsons, le vibrazioni prodotte dai lavori in corso nella strada sottostante, creavano un trillo continuo ed assordante, una vera e propria sinfonia del rumore. Quella notte tuttavia, Livio aveva dormito nella camera che guardava all’interno dell’antico palazzo in Borgo Pinti, nel centro di Firenze. Il suo amico Jurgen, fuori città per un congresso, sarebbe rientrato quella stessa mattina. Potendo scegliere, aveva preferito riposare nella stanza dell’amico piuttosto che in quella riservata agli ospiti, proprio in virtù di una posizione meno esposta al clamore della strada.
Stemperandosi pian piano attraverso i vani dell’ampio appartamento, i suoni giungevano flebili, non solo tollerabili, ma persino paradossalmente cullanti in uno stato di torpore.
Un raggio di sole filtrò attraverso le tende che ovattavano la bianca camera da letto. Il fascio di luce investì Livio in pieno volto. Passò qualche istante ed istintivamente corrugò il viso. Dopo qualche smorfia di assestamento, stropicciò lentamente le palpebre: ne alzò una e guardò la radiosveglia. Lampeggiava segnando le 2.06. Spalancò entrambi gli occhi e guardò verso la finestra: era già mattino e non potevano certo essere le 2.06. Si alzò fulmineamente dal letto precipitandosi verso lo scrittoio. — No! — esclamò atterrito prendendo il suo orologio. — Sono già le 10.00, accidenti! Non è possibile, è tardi. Dannata radiosveglia! Devo sbrigarmi, muovermi.
S’infilò rapidamente i vestiti e corse in bagno. Giusto il tempo di darsi una sciacquata al viso e tornò in camera da letto.
— Ma come diavolo è possibile che non sia suonata — imprecò ancora mentre metteva con foga nel borsone gli indumenti per la lezione — forse c’è stato un black-out durante la notte… o stamane. Bè, ormai importa poco. Muoviti ragazzo.
Chiuse la cerniera della borsa e si avviò in fretta verso l’ingresso. In quel momento la porta dell’appartamento si aprì e sulla soglia gli comparve innanzi Jurgen, con una busta di carta in un braccio ed un borsone da viaggio nell’altro.
— Ehi, buongiorno. Credevo fossi già uscito.
— Ancora no, purtroppo. Sono in un ritardo mostruoso. Ciao, devo scappare. — lo salutò baciandolo sulle guance — Spero di riuscire a fare in tempo per l’audizione.
— Non fai nemmeno colazione? Ho preso dei cornetti caldi al panificio qui sotto, sono buonissimi.
— Sarà meglio che vada — soggiunse prendendone uno dall’involucro — senti che profumo! Devono essere davvero squisiti.
Addentò il cornetto e cominciò a scendere per le scale. — Favoloso! Le chiavi sono sul tavolo in cucina. Grazie di tutto, ti chiamo più tardi.
D’un tratto si spense la luce dell’ingresso, unico ambiente della casa ad essere in quel momento artificialmente illuminato.
— Toh, è andata via di nuovo la luce — esclamò Jurgen — Aveva ragione il portiere: è dalle 8.00 che la luce va e viene.
— Me ne sono accorto! — gli fece eco Livio mentre scendeva frettolosamente l’ultima rampa di scale.

Pur tenue, lo squillo del telefono sembrò fendere la silenziosa atmosfera dell’ampia camera da letto, ancora avvolta in una luce soffusa. Destata nel torpore d’un piacevole dormiveglia, Delia allungò lentamente il braccio e sollevò il ricevitore.
— Sì, pronto?
— Della, ti ho svegliata? — chiese preoccupata Paola.
— No, cioè si... bè, sono ancora a letto, ma in realtà a svegliarmi ci ha già pensato la prima persona che ha telefonato per la stanza. Mi ero solo... riassopita. Che ore sono?
— Le dieci e mezzo. Allora, ti hanno già telefonato. Bene, no?!
— Sì, due persone: una studentessa e una donna di 40 anni. Ho dato loro un appuntamento nel pomeriggio per vedere la casa. Tu dove sei?
— Al lavoro, al Centro Danza dell’Arno. Devo far prendere aria ai costumi: tirarli fuori dai bauli, appenderli in magazzino e poi farne un inventano. Tra domani e dopodomani dovrò cominciare a prendere le misure dei nuovi arrivati. Oggi ci sono le audizioni per la compagnia e qui c’è alta marea: ragazzi e ragazze piovuti da ogni dove nella speranza di ottenere lavoro. Comunque devono prenderne soltanto sei complessivamente.
— Come mai? Un ricambio fisiologico.
— Lo credevo anch’io, ma a quanto pare i vecchi sono stati tutti riconfermati. Credo che ci sia bisogno di un ampliamento d’organico, in vista delle nuove produzioni. Erano mesi che il direttore ne parlava. Devo lasciarti adesso, ho una giornata Campale che mi aspetta. Ti chiamo più tardi, così magari mi dici come sono andate le tue... “audizioni”!
— Spiritosa! D’accordo, sarà meglio che mi alzi. Ci sentiamo più tardi. Buona giornata.

Livio riuscì d’un soffio a prendere il suo autobus, Chiese gentilmente ad alcuni passeggeri se avessero un biglietto in più per lui, visto che, per la fretta, non aveva fatto in tempo a comperarne uno. Ma nessuno, vero o falso che fosse, aveva un biglietto da vendergli.
— Bene — mormorò tra sé — non manca che veder salire il controllore, così il quadro della giornata si ravviva ulteriormente.
Non l’avesse mai detto. Dopo appena un paio di fermate, riconobbe la divisa di un controllore che si accingeva a salire sull’automezzo. — E ti pareva — esclamò sconsolato. Fece appena in tempo a saltar giù, onde evitarsi lo spiacevole ed imbarazzante frangente di una contravvenzione.
La sede del Balletto dell’Amo non era lontana ormai, ed accelerando il passo, in pochi minuti, vi sarebbe giunto. Frattanto il cielo si era completamente rannuvolato, per proseguire, così pareva, la serie di disagi che quella mattina sembravano non dover finire per lui.
— Piove?! Ma... prima c’era il sole. Bene!— esclamò guardando il cielo. — Grazie, di cuore, grazie!
Cominciò così a correre cercando di ripararsi sotto i cornicioni dei palazzi e le insegne dei negozi, attento il più possibile a non urtare i passanti col suo borsone. Dopo pochi minuti, bagnato e trafelato per la corsa, arrivò finalmente a destinazione. Apri la porta a vetri del Centro Danza dell’Arno ed entrò urtandola maldestramente con la borsa. Era così raro che potesse andarne in giro senza. In essa vi era praticamente tutto. In virtù della sua passione disneyana, la chiamava la sua ‘tasca” di Eta Beta. Imboccò di corsa il corridoio e ad un certo punto voltò a destra. Paola, che giungeva nel verso opposto al suo recando dei costumi tra le braccia, fu letteralmente travolta dall’impeto irruento del giovane. Prim’ancora di poterlo vedere, la ragazza finì rovinosamente a terra con tuffo il carico. Livio era imbarazzato, assolutamente confuso.
— Oh cielo, chiedo scusa. Non so proprio che dire.
— Bè, allora non dire nulla — replicò un po’ intontita Paola.
Il ragazzo si chinò e l’aiutò a rialzarsi. — Ti sei fatta male?
— Male? Oh... bè, sicuramente stavo meglio prima! Dì un po’: ce l’hai la patente per guidare l’autotreno?!
Livio sorrise, ancora un po’ imbarazzato, mentre l’aiutava a rialzarsi. — Devi scusarmi, è colpa della mia fretta. Ho fatto tardi per l’audizione e cercavo di recuperare tempo...
— D’accordo, d’accordo — lo interruppe Paola mentre si riassettava — sto benone, o almeno credo di essere tutta intera. Non preoccupiamoci più di me. Aiutami solo a raccogliere questi costumi e poi potrai riprendere la tua folle corsa contro il tempo, se vorrai. Tanto hanno cominciato in ritardo anche loro.
— Ma certo. — raccolse i costumi sparsi sul pavimento e li poggiò sulle braccia della ragazza. Afferrò quindi il suo borsone e riprese il cammino.
— Che giornata! — esclamò voltandosi verso di lei. — A questo punto non so cos’altro potrebbe accadere. Arrivederci, e scusami ancora.
— Ehi — lo chiamò ad alta voce Paola — guarda che la sala-prove è dall’altra parte. E in bocca al lupo!
— Ah, sì... grazie... e crepi!
Paola lo guardò ancora un attimo mentre le si allontanava dinanzi. Accennò un sorriso e scosse dolcemente la testa che, piccola, spuntava fuori dall’enorme pila di costumi che recava sulle braccia.

Suoni e immagini già note, accoglievano gli ultimi arrivati in prossimità della Sala A del Centro. Erano indicazioni di un copione già recitato ma che si rinnovava e modificava di volta in volta: a variarlo provvedeva il regista, nel caso specifico il coreografo che coordinava la situazione.
Le note che accompagnavano la prima audizione in corso si univano al mormorio continuo degli altri danzatori che attendevano il loro turno accampati lungo i corridoi, visto che le sale B e C del Centro erano occupate per altre lezioni.
Il Centro Danza dell’Arno era infatti sede, oltre che del Balletto dell’Arno, anche della scuola coreutica diretta da Cristiana Vallesi, una ex danzatrice del Teatro Comunale di Firenze, moglie del noto coreografo Robert Gideon. La nascita del Centro Danza, e quindi della compagnia, era maturata in seguito alla decisione di Cristiana Vallesi di offrire a suo marito le condizioni ottimali in cui poter svolgere il proprio lavoro di coreografo. Grazie alle sue influenti conoscenze a livello istituzionale presso gli enti governativi e locali, Cristiana aveva ottenuto per il suo centro e per la compagnia cospicui contributi che ne avevano permesso la nascita e la crescita artistica. In soli 5 anni di attività, il Balletto dell’Arno era divenuto un ottimo complesso coreutico, apprezzato da critica e pubblico. Il ragguardevole livello dei danzatori l’alta qualità delle produzioni coreografiche, rendevano questa compagnia un esempio di efficienza e professionalità nel teatro di danza italiano. Il direttore Robert Gideon, pur essendone il coreografo stabile, invitava spesso altri colleghi a creare o a rimontare i propri balletti per i suoi danzatori. Questa vivace politica culturale aveva favorito non solo la formazione di un già cospicuo repertorio di coreografie, patrimonio artistico della compagnia, ma anche relazioni di interscambio e di coproduzione a livello nazionale ed internazionale.
Svincolato dai rigidi meccanismi burocratici dei teatri di tradizione, il Balletto dell’Arno operava non solo grazie ai contributi economici del governo e degli enti locali, ma grazie anche alla capacità promozionale di vendita delle proprie produzioni. Cristiana e suo marito Bob avevano ben compreso quanto le possibilità di sopravvivenza di una compagnia fossero legate alla sua circuitazione dentro e fuori il territorio nazionale.
I due coniugi si erano conosciuti sei anni prima, quando l’allora trentunenne e talentoso coreografo, era stato invitato a creare un balletto per il Teatro Comunale di Firenze. Cristiana, all’epoca danzatrice stabile del Corpo dì ballo, se ne era innamorata subito e, ricambiata, lo aveva sposato l’anno successivo.
Bob Gideon, artista di grandi qualità e con una fama in continua ascesa, aveva accettato con gioia l’idea di lavorare in quella città italiana così ricca d’arte e di cultura, pregna di storia e di tradizioni che la rendevano profondamente diversa dalla Los Angeles nella quale era nato.
Avendo necessità di ampliare l’organico della compagnia, in virtù delle nuove produzioni coreografiche che intendeva realizzare, Bob aveva deciso d’indire delle audizioni. Il numero dei danzatori sarebbe stato così portato dagli attuali 10 ad un numero di 16, con l’assunzione ulteriore di tre uomini e tre donne.
In realtà non amava molto le audizioni, poiché le riteneva insufficienti per avere chiare indicazioni sulle peculiarità di un ballerino. La folla, il numero, erano un ostacolo, in quanto in sala si creava un confuso coacervo di corpi che non gli permetteva di individuare l’elemento per lui idoneo. Tuttavia, riflettendoci in un secondo momento, aveva realizzato che l’energia proveniente dalla personalità del singolo lo avrebbe colpito e attratto pur nel numero. Sentiva infatti il bisogno di nuovi soggetti per le idee che intendeva sviluppare: aveva necessità di danzatori “creativi”, come egli amava definirli, capaci cioè di stimolarlo nel processo creativo.
Un po’ a fatica, scambiando di tanto in tanto baci e strette di mano, Livio riuscì ad attraversare il corridoio lungo il quale erano disseminati i suoi colleghi. Sdraiati, seduti, a pancia sotto o a gambe in aria, essi si allungavano e si stiravano, dando l’impressione di essere un groviglio di arti. Battute salaci ed aneddoti piccanti, condivano quella che lui definiva “carne da macello”.
Giunto in segreteria, il ragazzo non fece in tempo ad aprir bocca che una donna dai capelli rossi gli tagliò la strada, e con voce squillante redarguì i presenti dalla soglia della porta: — Per favore, ho detto di non fumare. Se sorprendo qualcuno lo mando via senza fargli fare la lezione! — per un attimo ci fu silenzio. Ma non appena la fulva segretaria voltò le spalle, il mormorio riprese.
— Mi scusi, io dovrei...
— Si, lo so, immagino — lo interruppe la donna — vieni con me. Che ti è successo: non hai fatto in tempo a finire la doccia?!
— Oh — sorrise Livio toccandosi i capelli bagnati — Fuori piove.
— Piove?! Ma come, stamane quando sono uscita c’era il sole. Già, ma ora che ci penso era l’alba! Ecco qua. Compila questo foglio. E questo è il tuo numero.
— Ma... è un romanzo! — esclamò ironicamente il ragazzo guardando il foglio.
— Oh, non preoccuparti, di tempo ne avrai. Tanto ci sono ancora due gruppi di ragazze ed uno di ragazzi prima del tuo. Per cui...puoi prendertela con calma, caro il mio romanziere!
Livio annuì sorridendo. Si guardò intorno e decise di sedersi.
La segreteria era un ambiente abbastanza sobrio, dall’arredo non particolarmente ricercato o formale, tuttavia caldo e accogliente. Incorniciate sulle pareti, alcune splendide riproduzioni fotografiche in bianco e nero ritraevano grandi interpreti d’un passato più o meno recente, quasi a conferire un tono di sacra continuità all’arte coreutica. A sinistra della porta, posti su tre ampie mensole angolari, vi erano targhe e trofei, tutti riconoscimenti internazionali che attestavano la già brillante carriera svolta dal direttore della compagnia. Diverse fotografie, dislocate sulla parete tra la porta e le mensole, lo ritraevano, talvolta con sua moglie, in compagnia dei più grandi coreografi contemporanei con i quali egli aveva lavorato in qualità di danzatore o collaborato in veste coreografica.
Una parete, in legno e vetro smerigliato color orzo, divideva la segreteria dal piccolo studio privato di Robert Gideon e di Cristiana. Una solida scrivania in mogano troneggiava nell’angolo sinistro in fondo alla stanza, posizionata trasversalmente tra le due pareti contigue per poter usufruire di tutta la luce solare proveniente dall’ampia finestra che fronteggiava la porta d’ingresso. A destra della finestra, a ridosso del muro, vi era un piccolo scrittoio in legno chiaro sormontato da un personal computer. Livio prese la poltroncina girevole sotto lo scrittoio e vi si sedette, vicino alla scrivania. Si ritagliò un cantuccio di spazio tra le carte e gli oggetti, ed iniziò a compilare la scheda informativa.
Dopo qualche istante, sulla porta, comparve Bob Gideon.
— Amanda, abbiamo terminato con il primo gruppo. Queste sono le schede.
— Bene Bob. Ecco: pronte quelle del secondo gruppo.— La segretaria, andò incontro al direttore porgendogli il secondo gruppo di schede. — Ci saranno da fare sicuramente due gruppi di uomini.
Bob annuì e lanciò una rapida occhiata in direzione di Livio. Il ragazzo alzò lo sguardo dalla scrivania e lo volse in direzione del coreografo, come se un fascio di inusuale energia lo avesse lambito e distolto d’un tratto da quanto stava facendo.
Alto oltre il metro e ottanta, forte e asciutto nel fisico, Bob Gideon colpiva subito per la particolare fierezza del volto. La barba rada ed i capelli castani, quasi a spazzola, ne incorniciavano i tratti accentuando ulteriormente gli occhi vitrei che spiccavano nel bronzeo colorito della pelle. Una fronte ampia contribuiva a rendere ancor più tangibile l’energia di una personalità fiera e volitiva. Non esattamente bello forse, Gideon era indubbiamente un uomo affascinante.
Livio lo fissò attentamente per un istante. Un fascio di luce intensa penetrò dalla finestra attraversando tutta la segreteria.
— Guarda, guarda: è rispuntato il sole — esclamò Amanda.
Benché investito dalla luce solare, Bob parve non avvedersene affatto, continuando imperturbabile a guardare dritto dinanzi a sé. Il suo sguardo recava l’eco di un vuoto reale, un’onirica immagine di terre lontane.

Della aveva appena finito di fare colazione quando squillò nuovamente il telefono.
— Dio mio — imprecò — speriamo non si tratti ancora di gente per la camera.. Non ho nessuna voglia di trascorrere tutta la giornata al telefono. Pronto — esclamò modificando il suo tono di voce, mentre una smorfia le coloriva il volto.
— Delia? Sono Sandra, ciao.
Era Alessandra Del Tongo, direttrice di Firenze Dimensione Radio, l’emittente radiofonica presso la quale conduceva la sua trasmissione notturna.
— Oh Sandra, ciao. Come va?
— Bene, grazie. Non ti ho disturbata, vero?
— No, non preoccuparti. Ma se la direttrice mi chiama a casa di giorno, qualcosa bolle in pentola!
— Nulla che non sia appetitoso. Senti, abbiamo un nuovo sponsor per le trasmissioni di punta del mattino: è la Beauty Program, una catena di negozi di estetica del corpo e del viso. Hanno una sessantina di punti vendita sparsi nel Centro-Nord. Vorrebbero sponsorizzare anche “Anima della Notte”.
— Certo uno sponsor che simboleggia l’effimero non è l’ideale per la mia trasmissione notturna, ma d’altro canto gli affari sono affari. Tanto, pubblicizzare un marchio piuttosto che un altro, in fin dei conti, importa poco. E se pagano bene, buon per te e per la radio.
— Aspetta, non è esattamente questo il punto. Ci sarebbero da realizzare un paio di promo pubblicitari, ed il responsabile del settore marketing della Beauty Program vorrebbe te. Era qui fino a poco fa per la firma del contratto. Segue spesso la tua trasmissione e ne è entusiasta. Sai, genere manager rampante che vive la notte ma non dorme di giorno!
Delia rise — Si, ho capito il tipo.
— In sintesi: ha chiesto espressamente che sia la tua voce a dar corpo ai comunicati che manderemo in onda per loro, questo mese.
— Capisco. Va bene. Cosa dovrei fare allora?
— Potresti venire questa sera verso le otto in radio, per registrarli?
— Sì, posso organizzarmi, non preoccuparti.
— A proposito, il “tipo” lo troverai qui al tuo arrivo: sembrava molto curioso di conoscerti.
— Sì, dato il genere i patti sono: dò corpo ai promo pubblicitari, non al tipo!
Sandra rise di gusto In segno d’approvazione.
— Di palo in frasca, cara direttrice, lo sai di cosa mi sono accorta guardando poco fa il calendario?
— Di cosa?
— Con la giornata di oggi sono esattamente sei mesi che lavoro in radio.
— Ma dai: sono trascorsi già sei mesi? E ne sei pentita?
— Direi proprio di no. Sai, il vantaggio della radio è che non devi metterti una crema in faccia per leggere un comunicato commerciale!
Sandra proruppe in una fragorosa risata — Ci vediamo più tardi.
— A stasera, ciao, grazie.
Sei mesi: era questo il tempo già trascorso dal suo primo giorno, o meglio, dalla sua prima notte “on air”. La cosa le era piaciuta subito, anche se all’inizio era un po’ tesa ed emozionata. Ma l’esperienza avrebbe fugato la naturale tensione della debuttante. Dopo quel giorno infatti, la notte le era divenuta amica ed il suo dialogo con l’ascoltatore affabile e confidenziale. “Anima nella Notte” era una trasmissione in onda dalle ventiquattro alle due e mezzo del mattino, condita di musica meravigliosamente notturna, inframmezzata da spunti, versi, citazioni e riflessioni sui temi della vita. Mentre la città dormiva, Delia accompagnava la notte degli insonni, dei lavoratori notturni o di coloro che desideravano viverla più intensamente.
Tutto era cominciato per caso, quando frequentava le riunioni degli alcoolisti presso un Centro di Solidarietà. Un bel giorno, al termine di una seduta, conobbe Roberto Mattioli, fratello di una ragazza ex alcoolista che faceva parte del suo gruppo presso il centro. Simpatizzarono e decisero di sentirsi telefonicamente. Roberto era uno speaker-animatore di Firenze Dimensione Radio, una delle emittenti più seguite della Toscana. Conduceva una trasmissione nella fascia mattutina, laddove la richiesta commerciale e la fruizione radiofonica registravano i propri picchi. Delia non era mai stata in una radio, e a Roberto parve carino invitarla una mattina a fairgli visita durante la sua trasmissione. Nel corso del programma, in modo del tutto estemporaneo, lo speaker pensò di coinvolgere simpaticamente Delia in una piccola discussione in materia sentimentale. La ragazza. al di là di ogni prevedibile aspettativa, si disimpegnò brillantemente, denotando oltretutto un tono dì voce radiofonicamente caldo e suadente. Lo stesso Roberto, piacevolmente sorpreso, non fu in grado di replicare ulteriormente allorché Delia chiuse la simpatica diatriba, citando argutamente Oscar Wilde “In amore, si comincia con l’illudere se stessi per finire ad illudere gli altri”.
Alessandra Del Tongo, che in quel momento ascoltava distrattamente nel suo studio quanto avveniva radiofonicamente, rimase colpita dall’energia comunicativa e dal tono accattivante che sentiva scaturire dalla voce di Delia. Attraverso lo scambio di battute avvenuto in quei cinque minuti di trasmissione, riteneva di aver individuato un elemento veramente nuovo e positivo, qualcosa che le mancava e di cui era in cerca per la sua emittente.
Pertanto chiese subito a Roberto chi fosse quella ragazza e se gli era possibile invitarla nuovamente in radio entro due o tre giorni. A Roberto certo la cosa non dispiaceva, e così trovò una ragione per ricondurre Delia in radio. Dopo due giorni, segretamente d’accordo con la direttrice, la provocò nuovamente nel corso del programma, lasciandola andare peraltro a ruota libera.
Le telefonate che giunsero in radio da parte di alcuni ascoltatori, confermarono alla Del Tongo la validità della sua intuizione.
Delia emanava una carica di profonda umanità, frutto di una felice simbiosi di saggezza e simpatia. Colse così la palla al balzo, e le chiese di seguirla nel suo studio al termine della trasmissione. Sandra stava cercando qualcuno cui affidare un nuovo tipo di programma che doveva coprire la fascia oraria delle prime ore notturne. Le occorreva il personaggio giusto, suadente, confidenziale, capace di parlare senza banalizzare i contenuti più profondi, ed al contempo in grado di sdrammatizzare con arguzia le eventuali difficoltà. Era Delia, secondo lei, il personaggio congeniale a quel tipo di trasmissione. Pur priva di precedenti esperienze radiofoniche, la ragazza poteva funzionare proprio in virtù della sua spontanea adesione al programma.
Inizialmente sorpresa dall’inattesa proposta, Della l’aveva acccettata con entusiasmo già al termine del vivace colloquio con la direttrice. Stava vivendo un momento di transizione della sua vita e cercava un nuovo lavoro, temporaneo che fosse, prima di sentirsi nuovamente pronta a riprendere la sua vera attività professionale. Da diverso tempo oltretutto, non riusciva ad addormentarsi mai prima delle tre di notte, cosa che le permetteva peraltro di divorare romanzi, racconti e raccolte di poesia, con estrema facilità. Quel contratto era pertanto per lei una vera e propria manna. Avrebbe potuto inoltre scegliere i brani musicali da proporre sera per sera, per accompagnare i temi che si sarebbero sviscerati in trasmissione.
“Anima della Notte”: il titolo le era venuto spontaneo. Risvegliare l’anima della gente dal torpore quotidiano per divenirne il conforto notturno. Questo si proponeva, rivolgendosi a coloro che dalla notte cercavano un ausilio, un consiglio, un balsamo per giungere al sonno più sereni: voleva entrare in contatto e parlare ai loro cuori.
Reduce da un lungo periodo che l’aveva vista cadere preda dell’alcool e della depressione, Delia poteva forse svolgere quel ruolo in modo sincero ed equilibrato. “Anima della Notte” sarebbe stata per lei un’esperienza rivitalizzante, necessaria per riottenere lo slancio e l’entusiasmo che le erano stati sottratti. Inconsciamente, rappresentava la metafora dei suo attuale momento esistenziale: doveva vivere in simbiosi con la notte, prima di potersi riaffacciare al nuovo giorno, per tornare a vivere con slancio rinnovato la propria vita.

Terminata la loro audizione, le ragazze del primo gruppo si riversarono nel corridoio prospiciente la sala-prove. Sudate e accaldate per il lavoro appena svolto, riprendevano un attimo fiato prima di andare negli spogliatoi a cambiarsi. Era il mese di settembre e la pioggia improvvisa di quel giorno, pur avendo abbassato di qualche grado la temperatura, aveva reso l’aria particolarmente umida. Si cominciava a “grondare” già dopo i primi esercizi alla sbarra, come qualcuna delle ragazze aveva fatto notare. Entrare subito nello spogliatoio prima di aver abbassato un po’ il calore del corpo, voleva dire continuare a sudare come in una sauna.
— Laura! — esclamò Livio riconoscendo da lontano una delle ragazze del gruppo.
— Livio, tesoro. Ci sei? — gli fece eco andandogli incontro allegramente. I due, che avevano lungamente lavorato insieme nel passato, si abbracciarono affettuosamente.
— Tutto bene, piccola?
— Sì, spero. Lo sapremo tra un po’. Vedrai, la lezione è davvero bella: il maestro è favoloso.
— Speriamo di farla bene: stamane ho auto un’alzataccia. Tuo fratello non è più venuto?
— No. Ha deciso di restare a Montecarlo. Non lo biasimo: lì si trova bene. Ti saluta tanto; anzi, mi ha detto di darti un bacio ed uno schiaffo. Ancora non capisco perché tu sia venuto — soggiunse la ragazza dopo aver svolto la commissione fraterna.
— Ti spiegherò.
— Va bene, me lo dirai più tardi. Adesso vado a farmi la doccia. Penso che farò un giro in centro. Tornerò qui tra un paio d’ore.
— Allora mi aspetti?
— Per forza: non lo sai? Ci hanno chiesto di aspettare per comunicarci subito chi è stato preso.
— Sul sedo? Bene. Tutto sommato credo sia meglio così. Cotti e mangiati. Dai, vatti a fare la doccia adesso, che sei sotto vento! — ironizzò Livio toccandosi le narici con le dita.
— Spiritoso — replicò la ragazza dandogli uno schiaffo sulla mano.
Le diede un ultimo bacio e, borsa in spalla, si avviò anch’egli per andarsi a cambiare.
Piuttosto ampio, pratico ed essenziale nell’arredo, lo spogliatoio nel quale entrò, somigliava a tanti altri da lui frequentati nel corso degli anni presso i vari centri coreutici. Le panche, con attaccapannii incorporato, erano in ferro nero ed avevano i sedili di legno chiaro, simile al color beige del pavimento in ceramica. Dislocate per lo più lungo le pareti, ve ne erano un paio con i sedili da entrambi i lati che suddividevano lo spogliatoio in due emivani. Posti ad angolo, sulla sinistra, a ridosso dei due muri, vi erano degli armadietti di ferro battuto chiusi ciascuno con il proprio lucchetto. Livio vi si avvicinò un attimo per dare una fugace occhiata ai nomi trascritti sulle etichette: ne riconobbe un paio, dopodiché si sistemò su una panca ed iniziò a estrarre gli indumenti dalla borsa. Una calzamaglia di cotone elasticizzato bordeaux, la sua preferita, il sospensorio color carne, calzini di cotone neri, una tuta in felpa a figura intera verde petrolio, i calzerotti neri e le immancabili scarpette.
Tirar fuori gli indumenti dalla borsa, così come cambiarsi e scaldarsi prima della classe quotidiana, era un vero e proprio rituale che ripeteva giornalmente da ormai quindici anni. Nonostante la ripetitività di quelle azioni, aveva imparato ad accertarle come un dovere necessario, da espletare senza peraltro lasciarsi mai annichilire dalla routine. Ogni giorno poteva e doveva essere vissuto diversamente dal precedente: l’importante era evitare quanto più possibile i traumi ed i cambiamenti repentini. I mutamenti dovevano maturare attraverso un processo graduale, nato da un’esigenza interiore divenuta adulta. La maturazione poteva trasporlo ad un superiore stato di coscienza, prima che il potenziale del suo inconscio potesse condurlo verso mete più alte e gratificanti. Questo processo, in lui, si espletava attraverso lo slancio vitale, nell’anelito a dare libero sfogo alla fantasia creativa e alle sue idee sul movimento. La danza era la sua vita ed egli l’amava, oggi più che mai.
Un giorno aveva letto in un’intervista al noto coreografo William Forsythe, una frase che gli era parsa illuminante: “La danza è un processo, non un punto d’arrivo”. E da allora aveva compreso quanto era in lui in atto, senza peraltro voler limitare la portata della definizione data dall’autore. Sentiva ormai irrefrenabile la necessità di un cambiamento di ruolo, che gli desse modo di esprimersi in maniera più totale: l’attore andava gradualmente lasciando il posto al regista; al danzatore, stava subentrando il coreografo.
Le sue esperienze coreografiche gli avevano regalato momenti di gioia e soddisfazione, e soprattutto l’ultima, nel corso dell’estate dell’anno precedente, gli aveva procurato consensi lusinghieri da parte del pubblico e dei colleghi. Aveva creato un balletto di 9 minuti danzandolo egli stesso insieme ai suoi amici Valerio e Laura Adamoli, nel corso di una serata di gala organizzata da due noti critici del mondo della danza italiana. La ribalta ospitava quella sera danzatori e giovani coreografi nazionali, che militavano onorevolmente in compagnie straniere. Il tributo caloroso del pubblico e le congratulazioni degli organizzatori e dei colleghi, lo avevano gratificato ma, paradossalmente, dopo quella sera, non aveva più avuto occasioni per poter realizzare coreografie. Era un anno ormai, e la cosa gli pesava, e tanto. Tuttavia, almeno per il momento, la necessità primaria era ancora quella di lavorare per sopravvivere. Forse un giorno la bella “Signora”, come egli amava chiamare la dea Tersicore, avrebbe rivolto lo sguardo benevolo anche verso di lui e gli avrebbe offerto la sua opportunità. Gli avrebbe indicato la porta di un desiderio, e Livio non avrebbe dovuto far altro che aprirla.
Ma in quell’istante un’altra porta si aprii, quella dello spogliatoio, ed una voce familiare interruppe i suoi pensieri.
— Esco un attimo a fumare una sigaretta — il ragazzo entrò e sorpreso esclamò — Livio! Bellezza mia, come stai?
Era Marco Pinelli, un danzatore che fino a 4 anni prima aveva lavorato con lui proprio a Firenze, nel Corpo di Ballo del Teatro Comunale.
— Marco! È una vita che non ci vediamo.
I due si abbracciarono fraternamente.
— Allora, che mi racconti. Ma non eri a Bordeaux?
— Infatti, come vedi sono ancora in... bordeaux! — soggiunse Livio sollevando con due dita un lembo della sua calzamaglia.
— Terribile! Sei il solito matto. Che ci fai qui, credevo che ti fossi sistemato bene in Francia.
— In teoria ancora ci starei. Ho qualche giorno di vacanza. Dovrei rientrare dopodomani per rinnovare il contratto. Laura mi ha detto per telefono dell’audizione, e quindi ho pensato di approfittare per venire a farla.
— Per quanto mi faccia piacere vederti, non riesco a capire: sei in una buona compagnia, come mai hai deciso di venire a Firenze? Non ti trovi più bene a Bordeaux, vuoi tornare in Italia?
— In effetti non mi sembra che con la nuova direzione le cose vadano un granché bene. Per carità, non che a Bordeaux si viva male, ma quando l’elemento primario, la ragione per cui sei li, cioè il lavoro, inizia a deluderti, cominci a cercare qualcos’altro. Qui a Firenze sono stato bene, ti ricordi, ci siamo divertiti. Quando ho saputo dell’audizione, non avendo nulla da perdere, ho pensato di fare un tentativo. Ho sentito parlare bene di Roben Gideon, dicono che sia un buon direttore e le produzioni del Balletto dell’Arno sono sempre di alto livello. Ho passato gli ultimi tre anni all’estero e mi andrebbe di tornare a vivere un po’ in Italia. Anche se...
— Anche se... — ripeté curioso Marco.
— Francamente, fuori dall’Italia sono molto più professionali. Sono un po’ freddini magari, però si lavora meglio. Ma è pur vero che dove c’è un drappello di italiani in una compagnia, c’è poco da fare, si crea calore.
— Ad ogni modo il Balletto dell’Arno è un’ottima compagnia.
— Già, per questo ho deciso di venire. E a te come vanno le cose, Marco?
— Bè, tutto sommato abbastanza bene. Ho lavorato un po’ meno quest’anno, ma per fortuna ho lavorato. In Italia, al momento, la situazione è sconfortante. Ci sono colleghi a spasso da diversi mesi, gente che ha lasciato per fare non si sa cosa. Sono a Roma da un paio d’anni, o poco più, in attesa come al solito che ci rinnovino eventualmente il contratto all’Opera, o che facciano l’ennesima audizione per la graduatoria. Sono già due stagioni che ci lavoro.
—E come va?
— Mah! Alti e bassi. E sempre un casino! Senti, esco un attimo a fumare una sigaretta. Tu sei sempre virtuoso?
— Sempre virtuoso!
— D’accordo, ci vediamo tra un po’. E cerca di non fare troppo vento in sala.
Livio rise mentre Marco, con sigarette e accendino in mano, usciva dallo spogliatoio. L’espressione “fare vento” era un vero e proprio complimento per un danzatore, Significava la capacità di muovere sensibilmente l’aria con la vorticosità dei propri giri e la potenza del salto. Un danzatore che faceva vento, era un elemento in possesso di tecnica e qualità dinamiche notevoli, unitamente alla plasticità ed alla potenza della propria struttura fisica.
In quello stesso momento subentrò un ragazzo di colore. Questi appoggiò la borsa per terra e si sedette su di una panca posta sulla destra e frontalmente rispetto a Livio, che nel frattempo aveva quasi finito di cambiarsi. I due incrociarono i propri sguardi e si scambiarono un cenno di saluto. Si chiamava Lonnie Artric quel giovane di colore appena entrato, e come Livio ebbe modo di constatare, poteva essere certo uno di quei ballerini che “fanno vento”. Osservandolo, notò che aveva braccia e gambe lunghe, spalle larghe ed un torace ampio e muscoloso. Il suo corpo sembrava scolpito nel bronzo. Gli tornò in mente una bellissima statua di ebano che riproduceva un guerriero watusso: l’aveva vista proprio la sera prima, nella vetrina di un negozio in via Maggio, la famosa e caratteristica strada degli antiquari.
“Se è bravo”, pensò tra sé sollevando la borsa, lo prenderanno prim’ancora di arrivare ai grandi salti”.
Esiste in ogni danzatore, indipendentemente dal sesso di appartenenza e dalle inclinazioni sessuali, un accentuato senso estetico che travalica le differenze e le inibizioni. Un vero danzatore è un artista, ed in quanto tale considera il bello in modo asessuato. La bellezza allo stato puro colpisce l’individuo nella sua manifestazione più schietta: la contemplazione.
Uscito dallo spogliatoio, Livio trovò un angolo più appartato per scaldarsi, un po’ isolato rispetto al crogiolo di corpi di cui il corridoio pareva tappezzato.
La prima parte di quella mattinata si era svolta in modo alquanto frenetico, per cui sentiva il bisogno di rilassarsi facendo dello stretching e di riscaldare il proprio corpo senza dover udire chiacchiere inutili. Non aveva alcuna voglia di ascoltare le solite banalità, vere e proprie frasi di repertorio, usate quali scuse o attenuanti prima di ogni audizione. Le aveva udite troppe volte: Tanto sanno già chi prendere”, “Siamo venuti a fare una gita”,”Male che va abbiamo studiato anche oggi, ed almeno la lezione è gratis”, “Ma se sanno già chi prendere perché fanno un’audizione?”.
A tutti gli autori di queste affermazioni, avrebbe spesso voluto chiedere: “Ma che diavolo ci siete venuti a fare, allora?”. Domanda inutile, visto che conosceva già l’eventuale risposta: “...Bè, uno ci prova, si spera sempre”. Pertanto il gioco era assolutamente superfluo. Conveniva star lontani dal gruppo per evitare di lasciarsene ammorbare.
Seduto per terra, con le gambe divaricate e la schiena appoggiata al muro, Livio ultimava la scheda informativa che avrebbe dovuto riconsegnare compilata in segreteria. Le schede contenevano le informazioni anagrafiche e professionali riguardanti i danzatori presenti in sala al momento dell’audizione. Per quanto necessarie, erano indicative, ma non certo determinanti nella scelta che Bob Gideon avrebbe effettuato.
Fondamentale era invece l’impressione che il coreografo riceveva in sala-prove, che i danzatori fornivano attraverso la lezione di tecnica accademica e le sequenze coreografiche che egli stesso mostrava di volta in volta. Fluidità, sicurezza, stile, espressività, permeavano l’energia di una personalità che poteva colpire il coreografo. Il curriculum vitae di un elemento ed i suoi dati anagrafici costituivano un aspetto importante, ma pur sempre relativo, complementare, nell’ambito di una valutazione. Per Bob un buon danzatore era come un meraviglioso Stradivari: bello e con l’anima. Il coreografo era autore ed esecutore al contempo, dell’intensa partitura che scaturiva dal suo inconscio e che quel magico strumento tramutava in azione, in gesto, in danza.
— Ed anche questo papiro è stato compilato! — esclamò Livio stiracchiando braccia e spalle mentre si rialzava da terra.
— Scusa — gli chiese Lonnie avvicinandosi — qui dice: “residenza” e poi “domicilio”. Devo scrivere la mia città e dove abito, vero?
— Sì — rispose Livio — la residenza è la città, O meglio, il Comune nel quale risiedi. Mi spiego: io ho ancora la mia residenza a Roma, ma il mio domicilio... cambia continuamente! — I due risero insieme divertiti. — Bisognerebbe aggiungere: ultimo domicilio conosciuto.
— O.K., ho capito — Lonnie impugnò la penna e scrisse — New York. E domicilio...
— Sì, insomma, l’indirizzo del luogo nel quale abiti. Hanno bisogno del tuo recapito per eventuali comunicazioni.
— Grazie fratello. Io mi chiamo Lonnie.
— Ed io Livio — replicò stringendogli la mano - da quanto tempo sei in Italia?
— Da quasi tre anni.
— Però, devo dire che il tuo italiano non è niente male.
— Grazie. E tu?
— Oh, io da ieri mattina! — i due ragazzi risero nuovamente.
— No, volevo dire, se vivi a Firenze o in un’altra città.
— Sto lavorando in Francia, a Bordeaux. Ma se l’audizione dovesse andare bene, non mi dispiacerebbe tornare a lavorare qui a Firenze, ho degli amici, la città mi piace. Almeno per un po’, poi si vedrebbe. Se hai bisogno di una mano per finire il papiro, non farti problemi, d’accordo? Poi, potremmo riconsegnare le schede insieme in segreteria.
— Penso che sia meglio. OK, grazie.
Frattanto, canticchiando in tono ironico ed enfatico il motivo di una canzone del passato, si avvicinò a loro un altro ragazzo.
—“Io non ti conosco, io non so chi sei…” Guarda chi c’è, Livio, stupenda!
— Ciao, Claudio — gli rispose accennando un lieve sorriso.
— Stai benissimo, però ti trovo un po’ dimagrita.
Usare il femminile era un aspetto diffuso tra i ballerini gay, anche nei confronti di chi poteva non esserlo. Claudio aveva un modo curioso e grottesco di parlare, dovuto non solo alla “S” sibilante, che pronunciava sfiorando con la lingua i denti superiori, ma dovuto anche ai suoi vezzi comportamentali che marcavano ulteriormente la chiara origine napoletana.
— Mi sa che facciamo la lezione insieme — riprese Claudio poggiando maliziosamente le mani sul torace di Livio.
— Hai visto che fortuna!
— Senti — gli chiese accostandoglisi, un po’ più a bassa voce — ma chi è questa statua nera? L’ho visto l’altro giorno a lezione a Roma: è stupenda! Chissà come ce l’ha!
— Claudio!
— Senti — riprese poi con fare malizioso — che fai dopo la lezione?
— Sarò sicuramente impegnato, ma certo non con te!
— Scemo — sospirò il ragazzo allontanandosi indispettito — non sai cosa ti perdi!
— Che sagoma! — esclamò Livio scuotendo il capo, prima di incrociare nuovamente lo sguardo di Lonnie che sorrideva divertito.

L’orologio della cucina segnava le 14,20 quando Delia senti suonare il citofono. Stava finendo di annotare alcuni appunti prima di decidersi a pranzare, cosa che abitualmente per lei non avveniva mai prima delle 14,30.
Tralasciò gli appunti e andò a rispondere.
— Si?
— Sono Monica, la ragazza che ha telefonato un’ora fa.
— Oh sì, certo, vieni pure. Sono al secondo piano — le rispose aprendole il cancello d’ingresso.
La ragazza entrò ed attraversò il bellissimo giardino La pioggia del mattino lo aveva rinfrescato, ed il sole, che risplendeva ora radioso, ne accentuava ancor più i vividi colori. Oleandri dai fiori bianchi e rosa costeggiavano il vialetto asfaltato, che svaniva dietro l’abitazione, separandolo dal vasto prato nel quale sembrava immersa, come una palafitta nel verde mare, l’elegante palazzina a due piani. Rigogliose ed in fiore, dai toni rosa e scarlatti, le rose erano le regine in quella distesa color smeraldo di cui le bocche di leone e le fiammanti bignonie color arancio parevan esserne le ancelle. Piante di camelia loro vicine, corpose nel fogliame, ma ovviamente per ora prive di fiori, sembravano cortigiane al cospetto delle rose sovrane. E le calendule, disseminate tra i folti ciuffi d’erba, conferivano una piacevole sensazione campestre in un luogo, tutto sommato, non molto distante dal centro cittadino. La ragazza non poté fare a meno di notare la bellezza e la cura di quel giardino del quale, dall’esterno, si riusciva a intravedere ben poco per via del muro che lo recintava. Un muro color panna alto circa due metri, la cui parte superiore aveva un motivo a onde semicircolari rifinito con mattoni in cotto. Il parapetto di mattoncini rossi anch’esso, sormontava l’andamento sinuoso di quel motivo creando così delle fessure ad intervalli regolari che talvolta, quando non coperte dai rampicanti o dai rami degli alberi retrostanti, lasciavano intravedere qualche piccola porzione dell’interno del giardino.
Giunta quasi al termine del vialetto di mattoni che attraversava il prato, Monica si trovò di fronte ad una breve rampa di scale che precedeva il portone d’ingresso. Non aveva visto automobili lungo il viale asfaltato che limitava il manto erboso alla sua sinistra, quindi intuì la presenza di un parcheggio o di qualche box per le auto nel seminterrato. Entrò nella palazzina e notò come anche l’androne fosse inusualmente elegante. Lo percorse e si trovò dinanzi ad un’altra rampa di scale: Delia le aveva detto al secondo piano, pertanto la porta alla sua destra doveva essere l’ingresso dell’altro appartamento, visto che si trattava di una elegante palazzina bifamiliare.
Percorse le scale e trovò Delia ad attenderla sulla soglia dell’appartamento.
— Salve!
— Buongiorno, io... sono Monica — rispose la ragazza porgendole la mano.
— Prego, accomodati. Hai trovato facilmente la casa?
— Si, abbastanza. Devo dire che qui è bellissimo. Complimenti!.
— Sì, ed è anche molto tranquillo.
Un piccolo vano d’ingresso preludeva ad un enorme salone che costituiva il centro dell’appartamento, il pavimento era in legno scuro, e così pure le mensole e la maggior parte dei mobili che costituivano l’arredamento dell’ampio vano. Le pareti bianche accentuavano la luce solare proveniente dalla grande vetrata scorrevole, situata al centro della parete antistante: lasciava intravedere un meraviglioso balcone semicircolare ricco di piante floreali, ed un paesaggio incantevole. Un grande divano e delle poltrone a fiori, insieme ai numerosi soprammobili e ai vari quadri appesi lungo le pareti, costituivano le necessarie varianti di colore che vivacizzavano l’ambiente. Pur raffinato, ma nettamente improntato all’antico, sarebbe potuto risultare troppo serioso. Pezzi d’antiquariato, eleganti e di notevole valore, come il lungo tavolo e le relative sedie in mogano risalenti alla metà dell’Ottocento, o la nutrita collezione di porcellane del Settecento custodita in un’elegante credenza con le vetrine ed i ripiani in velluto scuro, rappresentavano per Delia un patrimonio più affettivo che economico.
E come le membra si inseriscono al tronco del corpo di un individuo attraverso le articolazioni, così, attraverso quattro porte d’accesso dislocate lungo le pareti, gli altri ambienti della casa comunicavano con il salone.
A destra della porta del vano centrale vi era quella della cucina, ariosa ed abitabile, arredata in legno chiaro, dotata di un pratico e comodo ripostiglio. Le pareti laterali avevano le porte d’accesso per le tre camere da letto. Lungo la parete destra vi era la stanza di Delia, precedentemente appartenuta ai suoi genitori, e nella quale dormiva ormai da qualche anno. Dotata, come le altre due camere, di un bagno indipendente, era ampia e confortevole, pregna di un’atmosfera che rispecchiava più del resto della casa la personalità di colei che la occupava. Se l’arredamento del salone aveva per lo più mantenuto la sua impronta originaria, col tempo la ragazza aveva notevolmente modificato quello della sua camera da letto, rapportandola sempre più alla sua sensibili. Erano rimasti immutati il grande armadio a sei ante in legno chiaro, la consolle per il trucco di sua madre ed il pregevole scrittoio antico di suo padre, ma gli oggetti e i colori rispecchiavano personalità e gusto realmente suoi. Era felice che i genitori avessero scelto il celeste come colore per il loro bagno, nel quale troneggiava una spaziosa vasca azzurra: era il colore preferito di Delia, che compariva sovente, in vane gradazioni, negli accessori della camera, dalle lenzuola celesti al copriletto in cotone, dal copridivano ai cuscini, per esaltarsi nell’intenso cobalto di un grande quadro appeso sul letto matrimoniale, che riproduceva un paesaggio marino al tramonto.
Lungo la parete laterale sinistra del salone, vi erano le porte delle altre due camere da letto, una delle quali era stata ed era tuttora riservata a suo fratello Dario, trasferitosi ormai da sei anni a Londra, ma che di tanto in tanto tornava a Firenze a trovarla.
— Che dire — esclamò Monica dopo aver visto l’appartamento — è una casa davvero bella. Quanto chiederesti d’affitto?
— L’affitto è di 650.000 lire al mese, comprese le varie spese di condominio e riscaldamento. E posso assicurarti che queste spese non sono certo basse. Se lo fossero state, forse non ci saremmo incontrate. Luce e gas sono a parte, ovviamente da dividere.
— Certo, posso immaginarlo. Dopo aver visto il luogo e la casa, potrei anche farmene un’idea.
La ragazza si accese una sigaretta e si guardò un attimo intorno. Poi si volse a Delia, che nel frattempo ne aveva subito inquadrato il gesto.
— Oh, scusami, tu fumi? — le chiese Monica ravvisando il suo sguardo e porgendole il pacchetto di sigarette.
— No, grazie.., è da parecchio che ho smesso di fumare. Per quanto riguarda le telefonate ci si può mettere d’accordo. Se tu pensassi di riceverne soltanto, come hai potuto notare, c’è un telefono in camera, vicino al letto. Se invece avessi intenzione di farne, sarebbe opportuno far istallare un contascatti. Ma questa è una cosa che potremmo definire dopo.
— Senti, a me interesserebbe poter venire a stare qui. Certo speravo di spendere un po’ meno per l’affitto, ma mi rendo conto che dato il luogo, la casa, e tutto il resto, il prezzo è abbastanza equo.
— Bene, allora lasciami un recapito dove contattarti. Dovrei vedere ancora delle persone oggi, dopodiché prenderò una decisione. Nel caso, ti chiamerò io entro domani per darti una risposta, d’accordo?
— Va bene, allora... aspetterò che mi faccia sapere tu qualcosa.
— Sì, entro domani a quest’ora — aggiunse Delia accompagnandola alla porta.
— A presto allora, e grazie.
— Ciao, grazie a te.
Delia richiuse la porta ed andò subito ad aprire la grande finestra scorrevole del soggiorno. Da quando aveva smesso di fumare, tre anni prima, non aveva più sopportato di avere accanto a sé l’odore del fumo. Questo ovviamente deponeva a sfavore di una sua eventuale scelta nei confronti di Monica, nella quale influiva peraltro il fatto che la ragazza si sarebbe potuta fermare soltanto per due mesi nel capoluogo toscano. Monica era una restauratrice ed aveva un contratto di lavoro in appalto improrogabile e con una scadenza ben definita per la consegna. Delia, dal canto suo, non aveva alcuna voglia di rimettere un’altra inserzione dopo soli due mesi. Certo si sarebbe potuto ugualmente verificare per altre ragioni, come nel caso di una scelta sbagliata: ma questa era solo una possibilità. La ragazza le era parsa simpatica, ma preferiva cercarne una che potesse affittare la camera per almeno un anno. Ad ogni modo c’erano altre persone da incontrare e valutare, prima di poter fare la scelta giusta.
Una cosa era certa fin dal principio, ossia dal momento in cui la necessità l’aveva spinta a mettere l’inserzione tra gli annunci economici: fare l’affittacamere non le piaceva affatto, e sperava di poter presto essere nuovamente in grado di provvedere da sola al mantenimento della sua dimora.

I danzatori del secondo gruppo maschile fecero il loro ingresso in sala intorno alle 15,00. Erano in 18 e costituivano l’ultimo drappello di quella intensa e interminabile mattinata. In totale 108 tra ragazzi e ragazze, neanche tantissimi rispetto a quanti se ne erano visti negli anni precedenti in situazioni analoghe, si erano presentati per le audizioni. Ben tre gruppi femminili ed uno maschile si erano avvicendati prima dell’ultima selezione. E se ne accorsero subito Livio e i suoi colleghi nel momento stesso in cui entrarono in sala-prove: il caldo e l’umidità, dovuti al tempo e al sudore dei danzatori che li avevano preceduti rendevano l’aria satura e pregna di un odore che sapeva di fatica, nonostante fossero state aperte le grandi finestre per consentire un po’ di ricambio d’aria. Peter Kramer, “maitre de baflet” della compagnia, dava la sua quinta lezione consecutiva e la sua espressione, come d’altronde quella del pianista accompagnatore, tradiva inequivocabilmente una più che lecita stanchezza. I due maestri si concessero cinque minuti di pausa per l’ennesimo caffè, giusto il tempo per permettere ai nuovi entrati di sistemare le proprie borse e di prendere posto alle sbarre.
Ampia e rettangolare nella forma, con una superficie di 13 metri per 10, la sala aveva una pavimentazione in larice che ben si amalgamava con le pareti color crema. La grande volta del soffitto conferiva all’ambiente una rara e liberatoria sensazione spaziale. Le grandi finestre laterali a forma di mezzaluna, la cui vista dava suggestivamente sul Lungarno, provvedevano ad arricchirla di luce solare conferendole una dimensione calorosamente artigianale. Livio prese posto alla sbarra centrale. Si guardò intorno, e pensò tra sé che lavorare in una sala-prove così bella poteva ridare entusiasmo anche nei giorni in cui veniva a mancare.
Rientrato in sala insieme al pianista, Peter Kramer iniziò subito a spiegare il primo esercizio.
— Buongiorno, signori. Iniziamo subito con i pliés.
Per esigenze di tempo il maestro aveva volutamente omesso la presbarra. Si iniziò quindi dai primi pliés e così via, attraverso battements tendus, jetées, rond de jambe, fino agli ultimi grands battements jetés che il pianista accompagnò con le note della ‘Danza dei Cavalieri” dal Romeo e Giulietta di Prokoviev. Fu una sbarra lineare, efficace e non particolarmente elaborata. Traslazioni alternate del peso del corpo sugli arti inferiori, rari cambiamenti di direzione ed un uso estremamente semplice ed accurato dei movimenti delle braccia: il tutto perché i ragazzi si sentissero caldi e impostati per affrontare al meglio tutta la parte “in centro”.
Dopo appena 25 minuti di sbarra, accaldati e già sudati, i danzatori iniziarono la vera parte danzata della lezione. A questo punto l’attenzione di Bob Gideon e Cristiana veniva ulteriormente allertata, per osservare i corpi danzanti nel loro rapporto con lo spazio. Vigili e attenti, i due coniugi valutavano con occhio esperto gli elementi dei tre gruppi nei quali erano stati suddivisi i diciotto danzatori di quell’ultima audizione. Era necessario essere spettatori del movimento per poter ravvisare l’energia vitale proveniente da un elemento particolarmente intenso. Espressività, qualità dinamiche, capacità interpretativa: era questo che il direttore cercava di individuare nei nuovi danzatori. Tuttavia Bob, come spesso accade ad un artista, osservava anche gli occhi delle persone, al di là delle eventuali qualità estetiche dei corpi, in quanto riteneva di poter stabilire un contatto vero con la loro sensibilità attraverso lo sguardo. Negli occhi, secondo lui, era contenuta l’essenza di un individuo, e guardando in essi poteva percepire l’eventuale sintonia di un danzatore nei confronti della sua vena coreografica.
Livio portava il numero 96 spillato sul torace. Bob lo aveva notato subito, pur tra i numerosi e prestanti ragazzi di quella giornata, per la particolare fisionomia del volto che gli conferiva un fascino non comune. I suoi capelli biondi indoravano in piacevole contrasto un volto tipicamente mediterraneo, virile e lievemente marcato nei tratti, nel quale spiccavano due vivaci e intensi occhi a mandorla scuri, che gli conferivano un aspetto vagamente esotico.
— Novantasei... eccolo qui. Livio Merani — mormorò a bassa voce il coreografo.
— Di chi parli Bob — chiese di rimando sua moglie.
— Del numero 96, Livio Merani. Guardavo la sua scheda.
— Oh, sì... niente male. Me ne ricordo: l’ho già visto a Firenze qualche anno fa. Ha lavorato al Comunale. Sicuramente un buon elemento.
Gideon fece una croce con la penna sulla scheda del giovane e alzò nuovamente lo sguardo verso la lezione in corso.
Un arioso “grand valtzer” accompagnava la combinazione per i grandi tours. Bob rimase colpito dall’armoniosa figura di Lonnie, la cui energica fisicità lo rendeva un sicuro polo di attrazione. Il giovane di colore aveva il numero 99: ne controllò subito la scheda, e dopo una rapida lettura, appose una croce anche su di essa. Vi erano altri due ragazzi di quel gruppo che non gli dispiacevano affatto, ma le possibilità di assorbimento nell’organico erano limitate a soli tre uomini.
La parte dedicata ai salti, fondamentale soprattutto in una classe maschile, fu un’ulteriore conferma dell’impressione che il coreografo aveva ricevuto nelle legazioni precedenti. Tuttavia, la vera prova del nove, giunse con l’esecuzione della breve sequenza coreografica che lo stesso Bob Gideon si premunì di mostrare ai danzatori. Vederne l’esecuzione da parte dei ragazzi significava per lui poter valutare le loro capacità dinamiche ed espressive, la possibilità di interiorizzarla, cosa che fin dal principio aveva cercato d’infondere alla sua compagnia.
I ragazzi si impegnarono tutti e molto, anche perché la bellezza e la qualità del movimento, unitamente all’intensità della musica che il pianista eseguiva, creavano una simbiosi quanto mai suggestiva.
Era sempre elettrizzante per il coreografo scoprire quanto la sua danza potesse fasciare in modo naturale un corpo, divenendone una seconda pelle che si arricchiva così dell’energia vitale che quel corpo stesso conteneva. Era come se da quel momento in poi, l’energia di quell’individuo divenisse parte di un progetto inconscio, strumento essenziale per esprimere le pulsioni emozionali del suo slancio creativo. Se il pennello è la mano interiore del pittore, che traduce su tela ciò che il genio suggerisce, così il danzatore suggella nello spazio, attraverso il proprio movimento le emozioni che il coreografo vive. A livello assoluto, non è dato sapere quanto il coreografo usi il danzatore per tradurre il suo scopo, né quanto il danzatore si nutra della creatività del coreografo nella propria crescita artistica; ma di fatto, per entrambi, è comune il fine: la danza.
In una dimensione pura, essa costituisce la sublimazione della necessità che gli artisti hanno l’uno dell’altro. Un’imprescindibile simbiosi che sì alimenta dell’amore per l’arte che accomuna creatore ed esecutore.

Le voci ed i corpi sembravano ovattati dal fitto vapore creatosi nel vano docce dello spogliatoio. I ragazzi commentavano tra il serio e il faceto i momenti salienti dell’audizione, intrecciando impressioni e pareri con goliardiche battute che rendevano l’atmosfera finalmente più distesa. Per scaramanzia o per un tacito comune accordo, si evitava di formulare ipotesi sui nomi dei prescelti. Molti di quei danzatori si conoscevano già tra loro, ed ognuno di essi ambiva a quel contratto, che prevedeva un anno di lavoro in un’ottima compagnia, con possibilità di rinnovo per il successivo. Il che garantiva, oltre alla sicurezza economica per un certo periodo, delle condizioni professionali dignitose e gratificanti: aspetti rari da riscontrare nel panorama coreutico italiano.
Pertanto le motivazioni che potevano aver spinto ognuno di quei ragazzi a sostenere l’audizione, per quanto varie, erano tutte forti e valide.
— Certo che la lezione è stata davvero bella. E che sequenza: stupenda! — commentò un giovane con accento torinese mentre riprendeva posto dopo aver fatto la doccia.
— Che movimento, ragazzi, che musicalità. Gideon deve essere geniale — gli fece eco un collega seduto su di un’altra panca.
Livio alzò leggermente il capo ed annuì con lo sguardo rivolto in basso, mentre si asciugava i piedi con l’accappatoio. Sentiva che gli sarebbe piaciuto davvero lavorare con Bob Gideon: era sicuramente uno di quei coreografi dai quali si poteva imparare molto. Ed era proprio questo che lo attraeva di più. Non era in ballo la sua sopravvivenza economica, almeno non nell’immediato, visto che se l’audizione non fosse stata per lui favorevole, avrebbe potuto rinnovare almeno per un altro anno il contratto a Bordeaux. Ma era in ballo la sua necessità interiore di continuare a crescere, e di portarsi laddove sentiva questo desiderio realizzabile. Il contratto a Bordeaux era una comodità per la mente, ma non un appagamento per il suo spirito in cerca di conoscenza. E poi era giunto il momento di tornare: c’erano aspetti del suo passato che andavano affrontati, una volta per tutte, o il loro spettro lo avrebbe seguito per sempre, dovunque fosse andato.
Non che ne avesse paura, ma il continuo fuggirli era divenuto inutile e al momento gli precludeva solo la possibilità di dare alle cose il giusto peso. Erano certo sensazioni che avvertiva più a livello inconscio, ma che senz’altro creavano in lui le premesse per dare un nuovo corso alla sua esistenza.
I ragazzi e le ragazze vennero radunati tutti insieme nel corridoio antistante la sala-prove. Alcuni erano seduti sulle sparute panche dislocate lungo le pareti, altri per terra appoggiati alle proprie borse, i restanti stavano in piedi. Erano ormai le 5,00 del pomeriggio e la giornata era stata lunga e intensa. E non solo per i danzatori convenuti al Centro Danza dell’Arno, ma anche e soprattutto per chi, come il maestro del ballo, il pianista ed il coreografo, avevano dovuto tenere ben cinque audizioni consecutive.
Livio era appoggiato su di un fianco alla parete, di spalle rispetto alla sala, e chiacchierava affabilmente con la sua amica Laura.
— Ti andrebbe di fermarti a cena da me, stasera? - gli domandò la ragazza.
— Cucini tu o tua madre?
— Che cattivo. Vuoi dire che non so cucinare?
— Ma no, che dici. Però, sai... sapendolo, uno può regolarsi!
— Grazie! Guarda che ho imparato. E poi non preoccuparti, cucinerebbe la mia mamma.
— Ecco, vedi, così è già meglio. Scherzi a parte, dipende dal treno che decido di prendere. Potrei partire questa sera o domani in tarda mattinata. Dovrei chiedere a Jurgen di ospitarmi per un’altra notte.
— Se hai problemi per dormire potresti restare da me questa notte, di questo non devi preoccuparti. C’è la camera di mio fratello.
— Mi sa che ci siamo — la interruppe Livio — ecco la Vallesi e la segretaria che arrivano — le aveva viste uscire entrambe dalla segreteria e dirigersi verso il nutrito accampamento dei ragazzi in attesa.
I danzatori lasciarono passare 1e due donne, le quali si fermarono sulla soglia della sala-prove, rialzata di un paio di scalini rispetto al piano, dalla quale era più semplice farsi udire dai presenti. Com’era ovvio presumere, erano lì per comunicare i nominativi dei danzatori selezionati per entrare a far parte della compagnia.
— Un momento di attenzione, per favore — esordì la Vallesi.
Improvvisamente calò il silenzio: i ragazzi cessarono di chiacchierare e Cristiana poté finalmente comunicare loro quanto doveva.
— Il direttore artistico del Balletto dell’Arno, Robert Gideon ed io ringraziamo tutti voi per essere intervenuti alle audizioni. Data la necessità da parte nostra di metterci quanto prima al lavoro, anche con i nuovi assunti, abbiamo preferito chiedervi di attendere cortesemente per avere un responso immediato dell’esito di questa lunga giornata. Come già saprete, abbiamo la possibilità di assumere soltanto tre donne e tre uomini per l’organico. Pertanto i nominativi che adesso leggerò sono relativi a quei sei danzatori da noi ritenuti idonei ad entrare a far parte della nostra compagnia. Inoltre, comunicherò altri sei nominativi indicati quali eventuali sostituti, qualora uno o più d’uno dei prescelti, per rifiuto o circostanze di varia natura, dovessero venir meno all’impegno di lavoro. Bene — proseguì Cristiana prendendo in mano un foglio che le venne prontamente passato dalla segretaria — grazie Arnanda. Leggo ora i nomi delle tre ragazze selezionate: Silvia Curzi, Laura Adamoli, Beatrice Vernét.
— Urràl — esclamò Laura dalla gioia. Livio l’abbracciò affettuosamente e le diede un bacio sulla guancia.
— Silenzio per favore — proseguì sorridendo la Vallesi — le eventuali sostitute sono: Sofia Conti, Alessandra Bersani, Conny Coleman. Leggo quindi i nomi dei ragazzi prescelti: Livio Merani…
— Doppio urrà! — proruppe nuovamente Laura abbracciando Livio, mentre molti dei ragazzi ridevano.
— Per favore! — riprese la donna questa volta un po’ stizzita — Allora: Livio Merani, Lonnie Artric e Flavio Genovesi. I sostituti sono…
In quell’istante Livio e Lonnie si scambiarono un sorriso d’intesa, uno spontaneo e reciproco modo di congratularsi tra due colleghi che avevano già istintivamente simpatizzato tra loro.
— A questo punto non puoi rifiutarti di venire a cena questa sera: dobbiamo assolutamente festeggiare — affermò Laura gongolando.
— Credo sia giusto. È bello: lavoreremo di nuovo insieme.
— Se ci fosse anche quello scellerato di mio fratello sarebbe perfetto. Ma non si può avere tutto: tanto lui è felice dov’è — aggiunse la ragazza, sollevando in modo scherzosamente rassegnato le spalle.
— Per cortesia — interverme Amanda — i ragazzi e le ragazze selezionati sono pregati di seguirci in segreteria.
— Mi scusi — chiese uno dei presenti — per quanto riguarda noi sostituti, cosa dovremmo fare?
— Se qualcuno dovesse rifiutare o venisse meno nel corso della stagione, sareste tempestivamente convocati. L’importante è che abbiate indicato chiaramente i vostri recapiti sulla scheda che avete compilato. D’accordo?
— La ringrazio.
Poco dopo Cristiana, Amanda ed i sei ragazzi scelti erano in segreteria per la firma dei contratti. L’assunzione prevedeva un impegno di lavoro a tempo determinato per un anno con la possibilità di riconferma per la stagione successiva. Lo stipendio di ciascun danzatore si aggirava intorno ai due milioni netti mensili, con incentivi di diaria nel corso delle tournées, in Italia o all’estero. Ciascuno di loro aveva obblighi di solista, visto che in una compagnia duttile e moderna come il Balletto dell’Arno ogni elemento ricopriva, a seconda delle esigenze coreografiche, parti d’insieme o ruoli solistici.
I danzatori erano inoltre coperti da un’assicurazione sugli infortuni durante tutto il periodo dì lavoro, una clausola impostata sul modello americano fortemente voluta da Robert Gideon.
— Avete tre giorni e mezzo di tempo a partire da questo pomeriggio per far eventualmente ritorno nei vostri luoghi di provenienza e sistemare le vostre cose. Lunedì mattina comincerete il lavoro con il resto della compagnia. Tutte le mattine, dalle 10,00 alle 11,30, farete la classe quotidiana. Terrà le lezioni, anche per questa stagione, il maestro Peter Kramer, che credo abbiate avuto modo di apprezzare nel corso dell’audizione.
I ragazzi annuirono in segno d’approvazione e scambiarono qualche rapida occhiata d’intesa tra di loro.
— Bene — proseguì la Vallesi — al vostro ritorno troverete un planning dettagliato, che vi informerà settimanalmente degli orari delle prove. Inutile dirvi che, soprattutto per i primi tempi, per voi nuovi sarà utile fermarvi il più possibile. Ci sono domande?
— Io ne avrei una, piuttosto pratica, se posso — intervenne Flavio Genovesi, un ragazzo di La Spezia proveniente dal Balletto di Zurigo.
— Prego — concesse cortesemente Cristiana.
— Sono quasi senza scarpette, le ultime le ho quasi rotte in audizione. Vorrei sapere se anche qui ne date, non so, all’inizio della stagione.
I suoi colleghi sorrisero e lo stesso fece la direttrice.
— Sì, certo. Darete il vostro numero di scarpe in sartoria, tra poco, e al vostro rientro ne troverete 4 paia che dovrete gestirvi per i primi 4 mesi. Nonostante i tempi, grazie al cielo, abbiamo ancora uno sponsor.
I ragazzi risero distesi tutti insieme, come se la domanda inattesa di Flavio avesse messo un po’ tutti in imbarazzo.
— Ci sono altre domande?
— È possibile sapere qualcosa sul primo programma che si porterà in scena?
— Domanda pertinente... — lo interrogò con lo sguardo.
— Livio, Livio Merani.
— Livio, sì, certo. Nelle prime 4 settimane di lavoro imparerete alcune coreografie che fanno già parte del repertorio della compagnia. Vi sarà utile per entrare in sintonia col gruppo. Le porteremo quindi in alcune città del Centro Italia. Il lavoro maggiore e più intenso inizierà dal mese di novembre: sono previste per questa stagione 2 nuove creazioni a serata intera di mio marito Bob. La prima debutterà qui a Firenze nel periodo natalizio, la seconda a maggio. Verranno inoltre due noti coreografi internazionali, i cui nomi conoscerete in seguito, a montare due coreografie per una serata-trittico che comprenderà un altro titolo di Bob: sarà il programma che intervallerà i due balletti a serata intera.
In quel momento si udì una voce femminile, proveniente dall’uscio della segreteria.
— Posso? — in modo discreto, ma pur familiare, Paola si affacciò sulla soglia della porta. — Scusa Cristiana, se disturbo...
— Nessun disturbo, non preoccuparti, entra pure. Ragazzi vi presento Paola Cipriani, costumista nonché preziosissima sarta della nostra compagnia. E questi sono i nostri nuovi danzatori che si aggiungono al manipolo che già ben conosci.
— Salve — esclamò semplicemente la ragazza lusingata dall’apprezzamento della Vallesi.
I ragazzi le sorrisero ed accennarono, ciascuno a proprio modo, un gesto o un’espressione di saluto. Paola riconobbe subito Livio e sorridendogli gli si avvicinò.
— Come vedi non è finita poi così male la giornata — gli sussurrò in tono ironico.
— Pare di no — replico il giovane.
— Vi conoscete? — chiese incuriosita Cristiana.
— Ci siamo conosciuti in modo alquanto rocambolesco stamane.
— Piuttosto inconsueto, direi — aggiunse Paola — il ragazzo era così convinto di entrare a far parte della compagnia, che aveva deciso di provarsi subito i costumi... tutti insieme!
Livio rise divertito, pur non condiviso dai presenti ovviamente ignari dell’episodio, ma che tuttavia ascoltavano incuriositi.
— Va bene, magari poi ci racconterete — glissò la direttrice sentendosi improvvisamente estraneata.
— Scusami, Cristiana, volevo solo chiederti se posso andare. In sartoria è tutto a posto. Vuoi che prenda subito le loro misure?
— No, Paola, non c’è bisogno di farlo adesso. Credo sia meglio che tu le prenda direttamente lunedì. Ragazzi, lunedì prossimo, al termine delle prove, dovreste passare tutti in sartoria: Paola prenderà le vostre misure per i costumi. Non dimenticatelo. Allora, questi sono i vostri contratti: prendeteli pure e leggeteli. Sono in doppia copia, ovviamente. Potete firmarli subito o portarli con voi e riportarmeli firmati al vostro ritorno… a meno che non decidiate di rifiutare!
— Nessun pericolo — esclamò prontamente Laura facendo ridere un po’ tutti.
— Allora io vado. Ci vediamo domani.
— Ciao Paola. A domani, grazie.
Prima di andare via la ragazza passò dalla sartoria: prese la sua borsa, chiuse a chiave il magazzino e si diresse verso l’uscita. Frattanto, distribuiti i contratti, anche Cristiana Vallesi aveva congedato i ragazzi dando loro appuntamento al prossimo lunedì mattina. Livio e Laura, felici per la loro assunzione, si diressero chiacchierando allegramente verso l’uscita. D’un tratto, come spesso le accadeva di fare, Laura si arrestò improvvisamente per illustrare all’amico la sua idea per la serata.
— Sai che si fa ora? Si telefona alla mia mamma e le si dice tutto. Così le si dà il tempo di prepararci una bella cenetta prima che noi si rientri a casa.
— Ma no, dai, non mi va che tua madre abbia tutto questo disturbo. Le nostre gioie non devono essere le croci degli altri!
— Ma quali croci! Lei sarà felicissima. E poi le farà piacere rivederti: non so perché, ma sarà contenta. E poi sai che si fa?
— Che si fa?
— Si va in una pasticceria strepitosa che conosco e si prende una bella torta, per festeggiare. Che ne dici?
— D’accordo, però offro io.
— Affare fatto… magari non tanto grande la torta, altrimenti lunedì rotolerò in sala, invece di ballare. E mi butteranno subito fuori così come mi hanno presa!
Livio proruppe in una schietta risata. La mimica della collega, unitamente al suo accento fiorentino, creavano un tipo di comicità che lo aveva da sempre divertito. Dotata di una certa autoironia, Laura era peraltro una ragazza molto carina. Aveva un corpo coreuticamente splendido, con linee lunghe e armoniche, ed un viso nel quale spiccavano il suo nasino alla francese e due occhi da furetto, cui i lunghi e folti riccioli dei capelli castani davano ulteriore risalto. Non era affatto strano che l’avessero scelta. Ma la dieta era un cruccio, più o meno accentuato, di un po’ tutte le ballerine. Vero o falso, era un modo di porre le mani avanti prima che qualcuno potesse alludervi. Per una danzatrice molta magra ad esempio, questo era un sistema per ricordare sempre a se stessa che lo era e doveva continuare ad esserlo. Nel caso di una ragazza più tornita invece, ella cercava di prevenire in qualche modo l’eventuale interlocutore prima che questi potesse farvi riferimento, evitando così probabili dispiaceri.
Livio rimase in prossimità dell’uscita in attesa che Laura trovasse un telefono per chiamare sua madre.
— Allora è proprio destino che ci si debba incontrare di continuo, oggi — esclamò Paola incrociandolo nuovamente.
— Sembra proprio di si — le rispose sorridendo — come vanno i cocci?
— Sono ancora tutta intera. E tu, sei contento?
— Considerando com’era iniziata la giornata, posso ritenermi pienamente soddisfatto. Certo adesso dovrò cercarmi casa, ma non è un problema, l’ho sempre fatto.
— Cerchi casa?
— Già, e se ricordo bene, i prezzi qui a Firenze non sono facilmente abbordabili. Per cui temo di non poter prendere nulla da solo, o mi mangerei tutto lo stipendio. Dovrei cercare un appartamento da dividere con qualcuno o una camera con il bagno e l’uso della cucina. Anzi, scusa se approfitto, ma se ti dovesse capitare di sapere qualcosa in proposito...
— Sai che oggi potrebbe essere il tuo giorno fortunato?
Un bagliore ravvivò improvvisamente gli occhi di Paola nell’istante successivo in cui Livio le aveva posto la domanda.
— Che vuoi dire? Hai già qualcosa da propormi?
— Ancora non so. Ma...
— Ma? Ti prego, spiegati.
— D’accordo. Ho un’amica che ha una grande casa, molto bella tra l’altro, in viale Machiavelli. Lei affitterebbe una camera con bagno, e presumo anche l’uso della cucina, ad un prezzo abbastanza ragionevole. La cosa t’interessa?
— Certo che mi interessa. Tra l’altro conosco bene la strada: è una zona molto bella.
— Già, solo che... c’è un piccolo problema, anzi ce ne sarebbero due. Il primo è che spero non l’abbia già affittata...
— E l’altro — chiese con foga il ragazzo.
— E l’altro.., potresti aspettarmi un momentino, giusto il tempo di fare una telefonata. Torno subito: così potrò dirti se la cosa è fattibile. Ho il cellulare scarico.
— Anche due momenti. Ti aspetto qui.
Con passo lesto, la ragazza si diresse verso il telefono pubblico del centro. Incrociò Laura, a sua volta di ritorno dall’apparecchio telefonico, e le rivolse un sorriso in segno di saluto. Laura annuì con il capo e proseguì verso l’uscita.
Paola frugò nella sua borsa — Accidenti, quando la cerchi, non la trovi mai! Eccola finalmente.
Trovò la scheda telefonica e formulò il numero dell’amica. Dopo appena due squilli udì una voce: “Ciao, non sono in casa, ma lasciate un messaggio...”.
— Non c’è! — esclamò un po’ sconsolata ascoltando il messaggio della segreteria telefonica. Ma prima che potesse riagganciare: — Pronto?
— Delia, allora ci sei.
— Si — rispose bloccando la segreteria — sono rientrata in questo momento. Giusto in tempo, perché c’è una persona che dovrebbe venire a vedere la camera a momenti. Tra l’altro dovrei incontrare un’altra ragazza alle 18,30. Dimmi, mentre io cerco di riprendere fiato.
— Ascolta, ti sto chiamando proprio per questo. Tu non hai deciso nulla, voglio dire, non l’hai ancora affittata a nessuno la stanza, vero?
— No, per ora ancora no, perché?
— Ci sarebbe una persona qui...
— Si? Dimmi.
— È.. un ragazzo, un danzatore.
— No, Paola, lo sai, non voglio uomini in casa. Non se ne parla nemmeno.
— Tesoro, se ti chiamo è solo perché ho avuto un’impressione positiva di lui. L’ho conosciuto qui, al lavoro, oggi: è stato appena assunto nella compagnia e mi sembra una persona a posto. Tra l’altro è molto simpatico e... perché no, carino
— Capisco che il ragazzo possa piacerti, ma ti prego, non per questo devo tenermelo in casa io!
— Non essere sciocca: è solo perché credo che voi due potreste andare d’accordo. Hai una casa talmente grande che non sarebbe neanche facile incontrarlo. E poi scusa, chi hai visto fino ad ora? C’è già qualcuno a cui hai deciso di affittare?
— Bè, sinceramente, fino ad ora, vuoi per una ragione o per l’altra, no, non ho ancora deciso per nessuno. Certo dovrei vedere ancora qualcuno... chissà. D’altro canto non posso neanche mettermi a fare troppo la difficile, se voglio affittare prima o poi questa camera.
— Ascolta, facciamo così: tu incontra pure queste altre due persone per oggi. Se una di loro dovesse convincerti allora va bene, buon per te. Intanto però fissami un appuntamento per questo ragazzo, così potresti perlomeno conoscerlo e valutarlo. Senza alcun impegno. Che ne dici?
Delia attese qualche istante prima di rispondere. Si trattava di venire eventualmente meno a quanto si era proposta, ma la soluzione ipotizzata da Paola aveva una sua validità.
— E va bene, ma senza nessun impegno, sia chiaro.
— Non preoccuparti cara, fidati. A che ora vuoi che gli dica di venire?
— Non saprei... diciamo domattina alle 10,30?
— D’accordo, ci sarà!
— A proposito, come si chiama?
— Oh cielo, sai che non gliel’ho chiesto?
— Paola sei unical
— Ma cosa vuoi che sia un nome, quando vedrai “un giovin giunger danzando, saprai ch’egli è l’uom del tuo fato”.
— Sei tutta matta! Devo lasciarti, sta suonando il citofono. Ci sentiamo domattina.
— Ciao ciao.

Fabrizio Laurentaci

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