La morte di Voltaire

Parigi, 30 maggio 1778, sera

Sono solo.
Solo.
Non uno dei grandi che non più tardi di ieri mi tributavano onori assisterà alla mia fine. Non una delle donne che ancora ieri cercavano un mio motto arguto come una perla da aggiungere al filo della loro vanità asciugherà la mia fronte nell’ultimo istante.
Ho vissuto troppo, my dear lover. Ricordate, era il nostro modo per ripeterci fino a che punto ci siamo appartenuti. Un’essenza stemperata nell’altra, senza distinzioni, dove finiva il vostro pensiero seguitava il mio.
Ho vissuto troppo a lungo e voi non mi avete più tenuto la mano. La vostra mano fresca sulla mia fronte accaldata, ora… ma no, no… voi siete andata via.
Anche lei è andata via. Mi ha lasciato qui, in queste stanze che non conosco, con due custodi che non mi parlano. Li sento di là, bere, ridere. Anche noi ridevamo molto, mia divina… la vostra risata squillante, tuono di gioia nelle mie orecchie, un regalo di cui non ho smesso di esservi riconoscente.
A lungo ho pensato che mi avreste ucciso, di felicità e di rabbia.
Il vostro spirito ardente contro la mia violenza. La mia incapacità opposta alla vostra passione.
Serberà ancora l’eco delle nostre grida il castello della felicità, l’adorata Cirey? Ci sono tornato, a volte, per poi ripartire subito.
Qualcuno avrà immaginato di vedere uno gnomo maligno spiare quel luogo incantato da dietro un cespuglio. Ma era solo il dolore che veniva a cercare un motivo a se stesso.
Mi ripetevo che mi avreste ucciso. Ma avete abbandonato questo sciocco giocoliere di parole a se stesso troppo presto, troppo a lungo. E io mi sono fatto uccidere dalla noia di non veder più i vostri occhi, lentamente, gustando la sofferenza dell’avervi persa, mio affascinante sole.
Ora lei mi ha lasciato qui – dov’è la vostra luce?
Solo. E le nebbie dell’oppio si posano sui ricordi imperlandoli di solitudine.Non dovevate lasciare che le vostre parole si spegnessero.
Il bisogno di parlarvi, fin da quando avete messo piede sul mio sentiero, la necessità di non smettere mi ha tormentato ogni giorno.
Oh, avrei potuto sostituire chiunque, ma come sperare di trovare chi scoprisse nelle mie parole, in ognuna di esse, un tesoro?
Come sopportare l’orrore di un isolamento senza speranza quando avevo gustato dalle vostre dita il miele della comunione perfetta?
Verrà l’inverno, ricordate quel che vi scrissi, Emilie? E l’inverno è arrivato alla fine. Con i passi pesanti di un bottegaio insolente venuto a reclamare il conto. Con la protervia astuta dell’usuraio che riscuote il suo debito. L’inverno è arrivato quando ho lasciato che mi lasciaste. Ed è un inverno cupo, di ghiaccio e lupi ululanti.
Non c’è la vostra voce di sirena a scacciarli, non le vostre mani a riscaldarmi.
Lei mi ha lasciato qui, ho bisogno di aiuto…
Vorrei solo le vostre mani, madame… Voi chiedete troppo poco, monsieur…
Ricordo ogni parola, vedete? Ogni istante che mi avete offerto con il coraggio e la pienezza gioiosa dell’amante, ogni brandello di discussione, gli appellativi feroci e le mie repliche aspre e il mio fuggire perpetuo, il vostro perenne attendermi nel luogo preciso del mio ritorno, senza una frase di più. Ma era sempre ai vostri piedi che deponevo il mio cuore e le mie parole.
E quelle, ascoltate, quelle sono al sicuro, insieme alle vostre.
Ho conservato tutto. Tutto è nascosto, lontano da quelle avide mani… le nostre lettere, il vostro diario. Avrei voluto dirvelo, ma la febbre vi aveva già rapita e non mi ascoltavate più. Il giovane insulso voleva bruciare le vostre parole, le nostre, o forse era vostro marito. Ma io ho rubato tutto, era mio, di diritto. Mio per sempre. E sempre con me è rimasto. E l’anello di cornalina con il mio ritratto nascosto…
Lei non lo ha mai saputo. Non ha mai saputo delle notti passate davanti al camino, a risentire la vostra voce, mentre fissavo il pannello che custodisce le vostre scintillanti parole, le mie divagazioni infinite su un unico tema. Voi. Era quella la vera solitudine: guardare quel pezzo di legno senza cedere alla tentazione di spostarlo e sapere che c’eravate, nonostante l’abbandono.
Emanava una luce leggera, da lì.
Ora fa buio e sono così solo.
È inverno, Emilie.

Francesca Schipa

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