La rivolta delle élite

 Prima della guerra di Secessione, era convinzione corrente, in un ampio spettro di opinioni politiche, che la democrazia non potesse avere un futuro in un paese di lavoratori dipendenti. L’emergere di una stabile classe di salariati, dopo la guerra, rappresentò uno sviluppo particolarmente scomodo, che pose ai commentatori politici problemi più gravi di quanto oggi non comprendiamo. I movimenti agrari che culminarono nel People’s Party non furono le uniche forze che cercarono di salvare la produzione su piccola scala attraverso un sistema commerciale cooperativo. Anche liberali come E.L. Godkin, l’influente direttore di «The Nation» e dell’«Evening Post» di New York, appoggiarono i movimenti cooperativi, almeno finché non si resero conto che il loro successo dipendeva dalla regolamentazione governativa del credito e delle attività bancarie. Nei primi anni del ventesimo secolo, il sindacalismo rivoluzionario e il socialismo corporativistico, in Europa, proposero delle soluzioni audaci e ingegnose (anche se, in ultima analisi, impraticabili) al problema del lavoro salariato, mentre i socialisti ortodossi capitolavano di fronte alla «logica della storia», affermando l’inevitabilità della spinta alla centralizzazione e della relativa riduzione del cittadino a consumatore. "

Christopher Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, traduzione di Carlo Oliva, Neri Pozza, 2017.

[Edizione originale (postuma): The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy, W. W. Norton & Company, 1995]


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