Jugend Lager

È il dicembre del 1944, uno degli inverni più freddi del secolo scorso. Luciana Sacerdote e Liliana Segre sono davanti alla propria baracca di Auschwitz, i corpi ormai ridotti a scheletri di 38 chili, e, per farsi forza l'una con l'altra, non immaginano piani di fuga leggendari o angoli di paradisi lontani ma rievocano i sapori, i profumi, i gusti dei piatti della propria infanzia: risotti alla milanese, trofie al pesto, grigliate di pesce, torte alla crema. E si ripromettono che, se mai usciranno vive da lì, si ritroveranno a mangiare in un ristorante vero e proprio e a conversare del più e del meno, come vecchie amiche di un tempo non vissuto, ma semplicemente sopravvissuto. "Marciavam giorno e notte per una rotta incerta verso nord, come se non avessero mai fatto altro nella vita. Laura, a un certo punto, aveva cominciato a dare i primi segni di un malessere che, con una diagnosi grezza e improvvisata, avevano attribuito al mal di cuore. A poco a poco che avanzavamo, cresceva sempre di più l'eco della guerra che si avvicinava, attutita da mezzo metro di neve fresca e dalle foreste di abeti tutto intorno. «Camminavamo di notte attraverso cittadine e strade deserte e, come pazze, ci gettavamo sui letamai e ci rubavamo l’una con l’altra i rifiuti: bucce di patate crude sporche di terra, ossi spolpati. Uno schifo» lo ricorda così Liliana. «Ci riempivamo lo stomaco fino in fondo, sapendo che il giorno dopo, puntualmente, vomito e diarrea ci avrebbero atteso. Ma non importava, intanto, in quel momento, lo stomaco si riempiva e il cervello poteva comandare di camminare alle nostre gambe. Furono molte notti, altri letamai, altre stelle in cielo.» Ogni tanto, lungo il tragitto, s'imbattevano nelle case lasciate vuote dai tedeschi, dove, quando erano fortunate, trovavano le credenze piene di cibo, viveri, a volte persino dei prosciutti interi. Più spesso erano granai o cascine abbandonati in mezzo al nulla, in cui riposarsi qualche ora prima di rimettersi in marcia. Riuscire a mantenere una dignità umana durante la Marcia della morte a volte era un'impresa letteralmente eroica. Per qualche giorno, quando ancora erano in balia dei tedeschi, si fermarono in una specie di capannone chiamato "Jugend Lager" (letteralmente, il "lager della gioventù") che, anni dopo, Liliana Segre definì "il posto peggiore in cui sia mai stata". «Era uno di quei posti in cui, se non ci fossimo state, se non l'avessimo visto di persona, faticheremmo persino a credere che sia mai esistito» racconta Liliana. «Non c'erano neanche i bagni e i gabinetti, e per espletare i propri bisogni bisognava uscire e farla come animali davanti a tutti, e poi tuffarsi nella neve fresca per pulirsi. Era stata Luciana ad avere l'idea. «Ci dobbiamo spogliare sulla neve e ce la dobbiamo sfregare su tutto il corpo» disse. «Tu sei pazza!» rispose Liliana. «Non abbiamo scelta. Altrimenti ci verranno le croste.» «Non mi spoglierò nuda sulla neve, non se ne parla.» Luciana insistette tanto, che alla fine la convinse. «Fu provvidenziale. Io, da sola, non l'avrei mai fatto: ero troppo pigra, preoccupata da altro» ammette Liliana. «Luciana, invece, in quella sua sorta di vacuità, aveva capito quanto l'igiene fosse importante. Insieme ci siamo spinte e sorrette a vicenda. Lei seguiva me in tutti gli aspetti psicologici, io seguivo lei sulla pulizia, il lavarsi una volta di più, sfregare la gamella orrenda sulla neve: tutte cose pratiche che, in un frangente come quello, fanno la differenza tra vivere o morire. Non lo dimenticherò mai.» "Un passo dopo l'altro" è anche la loro storia. (nella foto Luciana Sacerdote, a Genova, negli anni '60) 

Lorenzo Tosa

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