Jimi

“Ciao. Ti ricordi di me?” così esordì l’uomo seduto accanto al comodino. Come fosse entrato e perché conoscesse quel ragazzo dalla pelle di mogano era un mistero. L’uomo si arricciò i baffi sottili con la punta del mignolo e con un sorriso malefico gli disse: “Certo che ti ricordi di me. Noi siamo amici. Siamo legati da un patto ricordi?”. Spalancò gli occhi e cercò di urlare, ma quando aprì la bocca non uscì alcun suono; forse a causa di quei maledettissimi tranquillanti che Monika gli aveva dato. La figura snella si alzò con agilità e improvvisamente; come se volasse nella stanza gli piombò vicino. Con una mano gli serrò la bocca. Sentiva i baffetti ispidi del ragazzo solleticargli quelle mani forzute e affusolate. Jimi sentiva solo un sapore metallico in bocca. Un sapore di ferro e caldo. Iniziò ad agitarsi e il suo respiro era interrotto. “Non sei contento di vedermi?” gli domandò l’uomo snudando delle fauci da animale. Il suo respiro era impalpabile. “Non vogliamo svegliare questa bellezza che strafatta dorme accanto a te” disse indicandogli con Monika che dormiva accanto a lui con lo sguardo. Il giovane notò solo in quel momento il volto del ladro; perché solo un ladro può intrufolarsi in casa tua e senza accorgerti immobilizzarti al letto. Gli occhi lo intorpidirono. Quei due buchi neri piccoli e stretti. Due biglie in una faccia liscia e senza espressione. Volle piangere, ma non ci riuscì e ancora una volta diede la colpa alla sua nottata brava con alcool e droghe. Si maledisse. Ma tornò inchiodato nel letto quando sentì l’altra mano dell’uomo toccargli le piume da indiano che aveva tra i suoi capelli afro. “Non ti ricordi di me, ma porti i miei regali sempre con te” disse quella presenza oscura con un ghigno. Come scaraventato giù da un treno Jimi si ricordò quei denti da animale e quel profumo di rose.

Fu catapultato a vent’anni prima. Quando ancora nessuno lo conosceva ed era solo un bambino di colore in America. J, come lo chiamava sua madre, una donna dai fianchi larghi e il sorriso gentile, aveva la passione per la musica e voleva imparare a suonare la chitarra. La sua famiglia non navigava nell’oro, ma facendo grandi sacrifici gli regalò una chitarra. Il piccolo strimpellò le prime note, ma non ci voleva un orecchio da intenditore per capire che non c’era strada. Jimi fu catapultato a quella sera in cui desiderò di diventare una rock star. Voleva catturare il grande pubblico con la sua musica e la sua amata chitarra. Gli tornò alla mente quella cassa panca dove era accovacciato e sulla quale stava piangendo quando sentì quell’odore di rose e una mano ossuta toccargli la spalla. Non fu sorpreso di sentire quel tocco e nemmeno di vedere quell’uomo snello e alto nella sua stanza. Non si sentì intimorito, forse perché quell’uomo era, in fondo, parte di lui. “Ciao J, che succede?” esordì con una voce melodiosa e sfoderando un sorriso un po’ innaturale. “Voglio suonare la chitarra, ma non sono capace” gli rispose asciugandosi le lacrime e con il candore tipico di ogni bambino. “Questa?” domandò prendendola in mano e sedendosi sul letto. Le mani scheletriche iniziarono a scorrere sullo strumento e a sfoderare note a ripetizione. Il ragazzo spalancò gli occhi e spalancò la bocca sorpreso. La chitarra sparava suoni come un mitragliatore e l’uomo, completamente trasportato dalla melodia, scuoteva la testa e batteva il tempo con un piede. Improvvisamente, come una tempesta, il silenzio ripiombò nella stanza. “Vuoi diventare bravo come me, no? Tu vuoi essere una rock star! Vuoi che il mondo conosca il tuo nome. Vuoi che tutti ti riconoscano e impazziscano per te” la voce dell’uomo diventò sempre più forte “Tu vuoi che tutto il mondo gridi il tuo nome. Il nome di James Marshall Hendrix” a quest’ultimo grido seguì il tonfo sordo della mano contro la cassa della chitarra. Jimi annuì con la testa e l’uomo se ne compiacque; lo aveva in trappola. Ora e per sempre sarebbe stato suo. “Potremmo fare un patto” propose strofinandosi le mani. “Ti farò diventare il chitarrista più bravo del mondo, però…” la seconda parte della frase Hendrix non la ascoltò neanche. Gli bastava quello. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter saper suonare quella chitarra come quell’uomo. “Accetto. Va bene. Ho tante cose da dire e l’unico modo che ho per farlo è attraverso la musica” rispose. “Allora fai come ti dico. Prendi queste piume” l’uomo schioccò le dita e due piume da indiano. Bianche con la punta nera e lunghe poco più di una mano apparvero e caddero lentamente sul pavimento della stanza. “Non dovrai far altro che averle con te sempre” concluse tornando a sedersi sul letto. Il ragazzino si accovacciò e le raccolse nella penombra. “Ora veniamo alle mie richieste. Oh, che sbadato avrei dovuto presentarmi. Io sono il diavolo. Piacere” disse sorridendo. Jimi ricordò i suoi denti bianchissimi che sembrava illuminassero la stanza. “Come dicevo anche io ho delle mie richieste. Ti ho dato un grande dono e ti chiedo in cambio solo una misera cosa. Ogni dieci anni da oggi mi devi donare un’anima. Visto che sei stato così entusiasta di fare accordi con me sarò magnanimo e farò decidere a te”. Il piccolo era troppo intento a fissare quelle penne così lucide che non badò al diavolo e annui ad ogni sua richiesta.

Hendrix si ricordò e capì subito il perché di quella visita indesiderata. Si tranquillizzò e quando il suo respiro tornò regolare l’uomo gli tolse dalla bocca la sua mano malefica e rimase seduto accanto a lui nel letto. La luce stava entrando timida dalla finestra. “Ora che ti ricordi di me, ti ricordi anche perché mi trovo qui J?”. Il ragazzo annuì. Si sentiva troppo stordito, ma riuscì a biascicare un timido “Sì”. “Beh dove è la mia anima? E non cercare di fottermi come l’altra volta. Non me la bevo più la storia che nella chitarra c’è un anima e che il tuo atto di bruciarla su un palco davanti a tutto il mondo sia stato il tuo sacrificio per il nostro accordo. Non fare l’hippie del cazzo con me. Hai capito?”. Non riusciva a controbattere. La testa era pesante; come tutto il corpo d’altronde. I suoni erano lontani e accompagnati da un fischio e l’odore di rosa era soffocante. “Siccome mi sto stancando ora devi darmi il mio regalo per il nostro ventesimo anniversario. Mi prendo lei?” chiese passandosi la lingua, quel verme roseo e lungo, sulle labbra. Jimi scosse la testa energicamente e sputò insieme a un mare di saliva un “No”. Monika dormiva accanto alla scena beata. Quella donna alta e bionda vestita solo del lenzuolo era ignara di star rischiando la vita. “Mi prendo te allora? Però non capisco cosa ci trovi in lei. Una donna così insignificante. Okay, è carina te lo concedo, ma come lei ce ne sono milioni. Invece come te? Un negro Hippie che suona la chitarra come il figlio del diavolo? Come te, caro mio, non ce ne sono. Pensa a questo piccolino”. Lo fissò con un volto amorevole, come una mamma che mette a letto il suo bambino. Ripenso a quanto fu semplice attrarlo nella trappola del successo e come fu inutile cercarlo di avvertirlo che la fama è una cosa effimera. Se avesse avuto un minimo di amore lo avrebbe accarezzato. Invece quando Jimi Hendrix gli disse con bocca impastata: “Prendi me”. La sua mano non si posò sulla testa di suo figlio ad accarezzargli quei ricci neri come scogli, ma gli avvinghiò il collo e lo portò all’inferno con sé.

Quando Jimi Hendrix, la mattina del 18 settembre 1970 arrivò in ospedale era già morto. Morto soffocato da un conato di vomito. O meglio così la cronaca ha decretato. Da quel giorno le piume da indiano del più grande chitarrista di tutti i tempi scomparvero. In quanto a Monika, forse quella mattina avvertì la presenza del diavolo in quella stanza. Sentì quel profumo di rose e cercò di scappare. Scappò per due anni. Fino a quando il diavolo non decise di portare giù anche lei. Forse perché il suo piccolo figlio era così infelice e non riusciva più a scrivere neanche una canzone. Alla fine si sa che il diavolo ama il rock ‘n’roll.

Luca Vellani

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