Dino Buzzati 13. LA CANZONE DI GUERRA

Il re sollevò il capo dal grande tavolo di lavoro fatto d'acciaio e diamanti. " Che cosa diavolo cantano i miei soldati? " domandò. Fuori, nella piazza dell'Incoronazione, passavano infatti battaglioni e battaglioni in marcia verso la frontiera, e marciando cantavano. Lieve era ad essi la vita perché il nemico era già in fuga e laggiù nelle lontane praterie non c'era più da mietere altro che gloria: di cui incoronarsi per il ritorno. E anche il re di riflesso si sentiva in meravigliosa salute e sicuro di sé. Il mondo stava per essere soggiogato. "è la loro canzone, Maestà " rispose il primo consigliere, anche lui tutto coperto di corazze e di ferro perché questa era la disciplina di guerra. E il re disse: " Ma non hanno niente di più allegro? Schroeder ha pur scritto per i miei eserciti dei bellissimi inni. Anch'io li ho sentiti. E sono vere canzoni da soldati ". "Che cosa vuole, Maestà?" fece il vecchio consigliere, ancora più curvo sotto il peso delle armi di quanto non sarebbe stato in realtà. " I soldati hanno le loro manie, un po' come i bambini. Diamogli i più begli inni del mondo e loro preferiranno sempre le loro canzoni. " " Ma questa non è una canzone da guerra " disse il re. "Si direbbe perfino, quando la cantano, che siano tristi. E non mi pare che ce ne sia il motivo, direi. " " Non direi proprio " approvò il consigliere con un sorriso pieno di lusinghiere allusioni. " Ma forse è soltanto una canzone d'amore, non vuol esser altro, probabilmente." " E come dicono le parole? " insistette il re. " Non ne sono edotto, veramente " rispose il vecchio conte Gustavo. " Me le farò riferire. " I battaglioni giunsero alla frontiera di guerra, travolsero spaventosamente il nemico, ingrassandone i territori, il fragore delle vittorie dilagava nel mondo, gli scalpitii si perdevano per le pianure sempre più lontano dalle cupole argentee della reggia. E dai loro bivacchi recinti da ignote costellazioni si spandeva sempre il medesimo canto: non allegro, triste, non vittorioso e guerriero bensì pieno di amarezza. I soldati erano ben nutriti, portavano panni soffici, stivali di cuoio armeno, calde pellicce, e i cavalli galoppavano di battaglia in battaglia sempre più lungi, greve il carico solo di colui che trasportava le bandiere nemiche. Ma i generali chiedevano: " Che cosa diamine stanno cantando i soldati? Non hanno proprio niente di più allegro? ". " Sono fatti così, eccellenza " rispondevano sull'attenti quelli dello Stato Maggiore. " Ragazzi in gamba, ma hanno le loro fissazioni. " " Una fissazione poco brillante " dicevano i generali di malumore. " Caspita, sembra che piangano. E che cosa potrebbero desiderare di più? Si direbbe che siano malcontenti. " Contenti erano invece, uno per uno, i soldati dei reggimenti vittoriosi. Che cosa potevano infatti desiderare di più? Una conquista dopo l'altra, ricco bottino, donne fresche da godere, prossimo il ritorno trionfale. La cancellazione finale del nemico dalla faccia del mondo già si leggeva sulle giovani fronti, belle di forza e di salute. " E come dicono le parole? " il generale chiedeva incuriosito. " Ah, le parole! Sono ben delle stupide parole " rispondevano quelli dello Stato Maggiore, sempre guardinghi e riservati per antica abitudine. " Stupide o no, che cosa dicono? " " Esattamente non le conosco, eccellenza " diceva uno. " Tu, Diehlem, le sai? " "Le parole di questa canzone? Proprio non saprei. Ma c'è qui il capitano Marren, certo lui... " "Non è il mio forte, signor colonnello " rispondeva Marren. " Potremmo però chiederlo al maresciallo Peters, se permette... " " Su, via, quante inutili storie, scommetterei... " ma il generale preferì non terminare la frase. Un po' emozionato, rigido come uno stecco, i1 maresciallo Peters rispondeva al questionario: " La prima strofa, eccellenza serenissima, dice così: Per campi e paesi, il tamburo ha suonà e gli anni passà la via del ritorno, la via del ritorno, nessun sa trovà. E poi viene la seconda strofa che dice: "Per dinde e per donde...". " " Come? " fece il generale. " "Per dinde e per donde" proprio così, eccellenza serenissima. " " E che significa "per dinde e per donde"? " " Non saprei, eccellenza serenissima, ma si canta proprio così. " " Be', e poi cosa dice? " Per dinde e per donde avanti si va e gli anni passà dove ti ho lasciata, dove ti ho lasciata, una croce ci sta " E poi c'è la terza strofa, che però non si canta quasi mai. E dice... " " Basta, basta così " disse il generale, e il maresciallo salutò militarmente. " Non mi sembra molto allegra " commentò il generale, come il sottuficiale se ne fu andato. " Poco adatta alla guerra, comunque. " " Poco adatta invero " confermavano col dovuto dispetto i colonnelli degli Stati Maggiori. Ogni sera, al termine dei combattimenti, mentre ancora il terreno fumava, messaggeri veloci venivano spiccati, che volassero a riferire la buona notizia. Le città erano imbandierate, gli uomini si abbracciavano nelle vie, le campane delle chiese suonavano, eppure chi passava di notte attraverso i quartieri bassi della capitale sentiva qualcuno cantare, uomini, ragazze, donne, sempre quella stessa canzone venuta su chissà quando. Era abbastanza triste, effettivamente, c'era come dentro molta rassegnazione. Giovani bionde appoggiate al davanzale, la cantavano con smarrimento. Mai nella storia del mondo, per quanto si risalisse nei secoli, si ricordavano vittorie simili, mai eserciti così for- tunati, generali così bravi, avanzate così celeri, mai tante terre conquistate. Anche l'ultimo dei fantaccini alla fine si sarebbe trovato ricco signore, tanta roba c'era da spartire. Alle speranze erano stati tolti i confini. Si tripudiava ormai nelie città, alla sera, il vino correva fin sulle soglie, i mendicanti danzavano. E tra un boccale e l'altro ci stava bene una canzoncina, un piccolo coro di amici. " Per campi e paesi... " cantavano, compresa la terza strofa. E se nuovi battaglioni attraversavano la piazza dell'Incoronazione per dirigersi alla guerra, allora il re sollevava un poco la testa dalle pergamene e dai rescritti, ascoltando, né sapeva spiegarsi perché quel canto gli mettesse addosso il malumore. Ma per i campi e i paesi i reggimenti d'anno in anno avanzavano sempre più lungi, né si decidevano a incamminarsi finalmente in senso inverso; e perdevano coloro che avevano scommesso sul prossimo arrivo dell'ultima e più felice notizia. Battaglie, vittorie, vittorie, battaglie. Ormai le armate marciavano in terre incredibilmente lontane, dai nomi difficili che non si riusciva a pronunciare. Finché (di vittoria in vittoria!) venne il giorno che la piazza dell'Incoronazione rimase deserta, le finestre della reggia sprangate, e alle porte della città il rombo di strani carriaggi stranieri che si approssimavano; e dagli invincibili eserciti erano nate, sulle pianure remotissime, foreste che prima non c'erano, monotone foreste di croci che si perdevano all'orizzonte e nient'altro. Perché non nelle spade, nel fuoco, nell'ira delle cavallerie scatenate era rimasto chiuso il destino, bensì nella sopracitata canzone che a re e generalissimi era logicamente parsa poco adatta alla guerra. Per anni, con insistenza, attraverso quelle povere note il fato stesso aveva parlato, preannunciando agli uomini ciò ch'era stato deciso. Ma le reggie, i condottieri, i sapienti ministri, sordi come pietre. Nessuno aveva capito; soltanto gli inconsapevoli soldati coronati di cento vittorie, quando marciavano stanchi per le strade della sera, verso la morte, cantando.

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