La naia

Oggi il servizio militare obbligatorio non c’è più, ci sono gli eroici volontari, a paga accettabile, con giovani e graziose commilitone al fianco (cosa nemmeno immaginabile negli antichi tempi bui, o solo vagamente sognata), e divise e corredo (maglie, mutande et coetera) di discreta indossabilità. I diciottenni contemporanei non sanno che pèsca si sono evitati. Si, lo suppongono: “Meno male che non c’è più la naia, è vero? Ma tu l’hai fatta? Com’era?.
Com’era? Era dura , almeno i primi tempi. Dopo un po’ ti abituavi, ti scafavi, imparavi cento piccoli trucchi per imboscarti, come quello, quando percorrevi il cortile della caserma in tempo di riposo, di tenere sempre qualcosa, tipo una cartellina, fra le mani, per fingere di avere da fare, di stare ubbidendo ad un ordine superiore. Altrimenti, il primo sergente che incontravi, vedendoti ozioso, ti spediva subito a fare qualcosa di spiacevole e ti sfotteva il tempo libero.
Questo, e altri novantanove piccoli trucchi, imparavi e mettevi in opera. Per sopravvivere.
Ma andiamo con ordine.
Tu ne stavi lì, bello come il sole, a vivere la tua beata vita borghese, e ti arrivava la cartolina per la famosa visita dei tre giorni, per vedere se saresti stato abile arruolato o, per vari motivi, lasciato a casa.
La tragedia si delineava, ma non era ancora accolta con tutta la sua gravità. Era quasi un gioco, ti dicevi, e andavi spensierato e curioso per trovarti là con altri coetanei, alla presenza di annoiati medici militari, a motteggiarsi reciprocamente in mutande (o nudi); ma là, respirando odore di caserma e di rancio, d’improvviso l’istinto di sopravvivenza prevaleva (incurante del motto degli anziani di allora: 2Chi non è buono per il re, non è buono per la regina!. Lasciatemi a casa, e poi alla regina ci penso io!) e cominciasti a guardare l’ottotipo (la tabella di lettere della visita oculistica si chiama così, non è colpa mia) fingendo esagerate miopie, a confessare inventate malattie incurabili che ti pervadevano all’ultimo stadio, a provare a raccontare balle a quei medici che di panzane così chissà quante ne avevano sentite nel corso della loro carriera. Ma ci provavi.
C’era anche chi, previdente, si era preparato, digiunando i più giorni e ingoiando solo chicchi di caffè, ed era arrivato alla visita pallido e fragile e sottile come un giunco (insufficienza toracica e militesente, il maledetto). Un altro si presentò in caserma con un cappello d’alpino con sopra una piuma di struzzo verde lunga un metro urlando in falsetto: “Ragazze, ragazze, sono arrivato, eccomi qua!” (Funzionò, ma ti segnavano come omosessuale in non so quale casellario e in quei tempi oscuri erano acidi, ma acidi davvero). Chi sperava in un parente maresciallo che aveva fatto dei piaceri a un colonnello che avrebbe potuto…,chi si sarebbe raccomandato presso un zio monsignore, a un amico politico importante…speranze spesso vanificate dalla dura realtà dei fatti.
C’era poi la famosa nonna a carico: si scoprì che avere una nonna non in grado di sostentarsi ed essere figlio unico di madre vedova, come suo parente prossimo ti rendeva subito militesente. Quanti giovinetti scoprirono improvvisi affetti per la nonna gridando fieri al mondo: “Io, sol io manterrò e proteggerò l’amabile vecchietta!”. Altri invece maledirono la caterva di parenti che questo compito se lo assumevano da anni senza fare una piega.
Insomma, triste y solitario final: abile e arruolato.
Li per lì non ci pensavo più di tanto. "Oh bè, m'han fatto abile, andremo a vedere com'è questa vita militare, tanto, guerre non ce ne dovrebbero essere più. O no?". Oppure. "Sai Gino, oggi mi han fatto abile arruolato. Mi han preso, accidenti. Anche te?! Dai, allora, che andiamo a berci sopra!"
Spensierati, insomma, allegri e incoscienti. Finchè un giorno ti arrivava una cartolina su cui era scritto dove e quando ti dovevi presentare per iniziare il servizio. Non era per il giorno dopo, avevi quei due o tre mesi per pensarci sopra. E ci pensavi, ogni tanto, perchè vivevi ancora la tua piena vita, ma era come un tarlo sottile, una talpa che ti scavava di sotto. La morosa, ti dicevi in un momento improvviso d'angoscia, mi aspetterà? Ma sì, ma sì, mi ama tanto, me lo ha detto anche oggi, certo mi aspetterà, casta e fedele; ma dentro di te sapevi, intuivi, che dopo un paio di mesi le di lei lettere si sarebbero rarefatte come gocciole da un rubinetto nel buio e poi sarebbero sparite del tutto, lasciandoti nella tristezza più nera.
E intanto i giorni passavano, non più tre mesi ma due. La distanza al giorno fatale era sempre lunga, e anche se ancora tiravi bellamente avanti, quel qualcosa dentro di te ti rodeva, magari nottetempo ti svegliavi di scatto e prova poi a riaddormentarti. Ma così, una notte soltanto.
Poi, all'ultimo mese, le settimane diventavo tre, poi due, poi una, poi...eccolo lì, il giorno infausto, dopodomani si parte. E non era mica a due passi, la destinazione. In base a non so quali legge assurde (o forse, dopo l'Unità d'Italia, per mescolare gli italiani), a meno che il parente maresciallo o lo zio monsignore o l'amico politico importante non fossero riusciti ad architettare qualcosa, chi era di Bolzano veniva scaraventato a Caltabellotta e chi di Palermo finiva inevitabilmente ad Aosta.
Preparavi poche cose e andavi dal barbiere. Così li frego, dicevi ingenuo, non avranno niente da tagliare, senza immaginare che la differenza fra il barbiere civile e quello militare è che mentre il primo, anche se taglia, conserva una parvenza di chioma, quest'ultimo, quando ti ha sotto le mani appena arrivato, considera suo compito storico far tabula rasa di qualunque massa pilifera - un rado ciuffetto lasciato, un insulto alla propria professionalità -, e rasato a zero significa veramente rasato a zero.
Poi ti aspettavano alla stazione, coi camion. Sergenti feroci urlavano i primi ordini. Ti guardavi attorno smarrito, cercando inutilmente tracce confortanti in panorami sconosciuti, intessevi i primi rapporti con altri sfortunati compagni. Infine, chilometri di strada, raramente la caserma era in città come speravi ("Durante la libera uscita la visiterò, andrò al cinema o a teatro, conoscerò gente di qui, magari ragazze!", ma in lande desertiche e inospitali, ben distanti da qualsiasi centro umano abitato.
Consegnavi subito le tue poche cose e andavi al vestiario; una rapida occhiata di un sergente furiere stabiliva la tua taglia, sempre largamente imperfetta. Ecco due paia di pantaloni, due camicie, due maglia, due paia di calze, due di mutande, un paio di anfibi (con annessa puzzolente scatoletta di grasso per renderli impermeabili), un paio di scarpe, le bustine (copricapi), una serie di fregi e mostrine, ago e filo per cucirteli; una spazzola da scarpe, una gavetta ("Ma esistono ancora? Dovremo mangiare qui dentro?" ), un coltello tattico, una cintura di cuoio, un cinturone, una tuta mimetica.
Ti vestivi, conservando anche le TUE mutande (quelle della naia erano davvero una cosa improponibile), ed eccoti lì, soldato italiano, di proprietà dell'Esercito Nazionale, del ministero della Difesa.
Venivi portato al posto letto, cioè alla branda, con vicino armadietto ("Deve essere sempre ordinatissimo! Se a un'ispezione si trova qualcosa fuori posto, vi beccate una punizione!"). Ti si spiegava l'aurea regola del "cubo". Il cubo consiste nel piegare in tre il materasso e sopra mettere, ben stese coperte e lenzuola, in modo da formare appunto un perfetto parallelepipedo (e non cubo. Forse "parallelepipedo" era parola troppo difficile da usare nell'ambiente). In cima a tutto, il cuscino. Coperte e lenzuola dovevano essere accuratamente tirate ("Lancerò sopra al cubo una moneta! Se non rimbalza, vi beccate una punizione!").
Cominciava a delinearsi quel famoso motto della naia che recita: "La vita militare è rendere le cose facili difficili attraverso l'inutile".

Francesco Guccini

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