I treni a vapore

Ah, la grande romantica magia dei treni a vapore, oggi solo presenti in qualche sagra rievocatoria.
La letteratura dell’Ottocento ne è piena, come fosse la locomotiva la macchina del futuro, una forza meccanica incredibile, ferro carbone e fuoco, stantuffi e ruote a mangiarsi le rotaie e le distanze, lucidi macchinisti e neri e sudati fuochisti, la prova della volontà e dello spirito dell’uomo che soverchia la materia.
…”Ansimando fuggia la vaporiera / mentr’io così piangeva entro il mio cuore; / e di poliedri una leggiadra schiera / annitrendo correa lieta al rumore” Giosuè Carducci.
Percorrendo in treno la Maremma toscana il poeta allude al canto del bolide che corre sulla rotaia, lo sbuffo del vapore, il fischio della sirena ogni tanto ad accompagnare l’alto sfuggente pennacchio di fumo.
Nella realtà le cose erano un po’ diverse. Sulla ferrovia Porrettana (la prima transappenninica), costruita nella seconda metà dell’ottocento con arditissime soluzioni ingegneristiche (il dislivello fra la stazione di Pracchia e l’apice sul versante pistoiese è di cinquecentocinquanta metri in ventisei chilometri), macchinisti e fuochisti di rincalzo, a cavallo, dicono, attendevano il treno all’uscita della galleria più lunga per balzare a bordo e sostituire i loro colleghi semiasfissiati per il funo.
A cavallo o a piedi non so, so però che la vita media di un fuochista o di un macchinista era, allora, di circa quarant’anni.
Nel 1927 la linea fu elettrificata ma, durante l’ultima guerra, i tedeschi in ritirata la distrussero del tutto, facendo addirittura cozzare in una galleria due locomotive cariche di esplosivo. Fu ricostruita rapidamente ma non elettrificata subito, cosicché i sopravvissuti provarono ancora per alcuni anni l’ebrezza di viaggiare a vapore, col fumo che, percorrendo una galleria (e ce ne sono tante), entrava da tutte le parti e i fazzoletti di chi per ventura si soffiava il naso risultavano neri di carbone. Forse anche i polmoni.
Fino al 1962 esisteva un altro mezzo di trasporto su rotaia, la “Littorina”. Il termine sembra nato all’inizio degli anni trenta, quando Mussolini, in visita alla città di Littoria (oggi Latina), arrivò viaggiando appunto su un’ALN (Automotrice Leggera a Nafta). Anche la Littorina, usata poi per tratte secondarie, è scomparsa dalla circolazione.
Macchine a vapore, Littorina o locomotiva elettrica, i viaggiatori ferroviari di un tempo ricorderanno un’altra cosa scomparsa: la terza classe.
Viaggiare in prima classe era roba impensabile per i più, cose da Orient Express. Si immaginavano (si immaginavano soltanto, perché nessun essere umano normale aveva mai visto uno scompartimento siffatto dal vivo) broccati, damaschi e velluti, morbidi divani sui quali sedevano ricche ereditiere, magnati della finanza o dell’industria, cocotte d’alto bordo e spie internazionali, serviti, più che da normali ferrovieri, da maggiordomi in livrea e guanti bianchi.
I passeggeri mangiavano (si nutrivano?) solo al vagone ristorante, luccicante di cristalli e di posaterie d’argento.
La seconda classe era già più umana: anche qui trovavi comodi sedili e atmosfere rarefatte, ma, in confronto alla prima, era quasi un “vorrei ma non posso”. I passeggeri usufruivano dei cestini da viaggio.
La terza classe invece – ah la terza – era quella proletaria, quella delle valigie di cartone passate dai finestrini, quella delle urla “sbrigati che qui c’è posto” fra sgomitare continuo, quello dei cartocci di pane e mortadella, di provole e salami affettati sulle ginocchia e di fiaschi di vino, bevuto a collo.
Mentre i vagoni delle altre classi avevano solo due sportelli, quelli di terza ne avevano molti, che si aprivano su scomodissimi sedili di legno uno di fronte all’altro.
E mentre nelle altre classi le scritte E’ vietato sporgersi dal finestrino (o meglio: Si prega la gentile clientela di non sporgersi…) erano tradotte anche in francese, in inglese e in tedesco, nella terza, forse, oltre al brutale E’ severamente vietato…, c’erano solo traduzioni in alcuni fra i più noti dialetti della penisola.
Anche le sale d’aspetto erano suddivise in classi. Ora ce n’è una sola per tutti, ma, normalmente, serve da rifugio per i senza fissa dimora. O per qualche coraggioso passeggero.

Francesco Guccini

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