La ghiacciaia

Ricordo, molti anni fa, mia madre in estasi davanti ad un negozio di elettrodomestici: "Guarda, un frigorifero!"
"Ma mamma, l'abbiamo già anche noi"
"Eeeh no! Noi abbiamo soltanto una ghiacciaia; questo, il ghiaccio, lo fa, non bisogna mettercelo dentro".
Sogno di una macchina che teneva fredda la roba e senza metterci dentro il ghiaccio, anzi, il ghiaccio addirittura lo fabbricava. Che miracoli fa, la scienza?
Ma prima dell'avvento universale del frigo (inventato nella metà degli anni Venti del Novecento), come si tenevano in fresco le vivande?
Si poteva stivare la neve in apposite costruzioni fino a farla ghiacciare, e così durava a lungo, per mesi. Nella montagna pistoiese, soprattutto nella zona delle Piastre, c'era una vera e propria protoindustria del ghiaccio, sopravvissuta fino agli anni cinquanta del secolo scorzo. Deviavano il fiume Reno in apposite vasche e l'acqua, quando la temperatura scendeva sotto zero, ovviamente gelava. Il ghiaccio così prodotto veniva quindi spezzato con speciali picconi e conservato nelle "ghiacciaie", edifici in pietra all'uopo costruiti, a pianta circolare, con tetto conico di paglia e con foglie come isolante, a tenuta (relativa) termica. Il ghiaccio serviva per gli ospedali di Firenze, Pistoia, Montecatini, o per le cantine e le cucine delle ville signorili della zona.
Negli anni Quaranta-Cinquanta in casa, prima del frigorifero, qualcuno aveva appunto la ghiacciaia domestica, e avercela non era da tutti.
Era un mobiletto della grandezza circa di un comodino, un parallelepipedo laccato di bianco, foderato di zinco, con due scomparti. In uno mettevi il cibo da conservare, nell'altro mezza stecca di ghiaccio, venduto da un addetto che passava periodicamente con un carriolo carico di stecche. Te ne rompeva mezza che avvolgevi in un sacco di tela e portavi rapido a casa, staccandone subito un pezzo da succhiare ("Non esagerare con tutto quel ghiaccio che poi ti fa male!").
Ma non era uno strumento pratico, poi l'uomo del ghiaccio non passava sempre e anche comprare solo mezza stecca al giorno era una spesa per le magre finanze di allora. Così la ghiacciaia fu presto dimenticata e sparì in un oscuro recesso.
Si tornò ai procedimenti tradizionali: il panetto di burro messo in un vasetto colmo d'acqua e gli "odori" (un rametto di rosmarino, un ciuffetto di salvia e di prezzemolo, una carota, mezza cipolla, una testa d'aglio) in un cestello di metallo traforato appeso fuori alla finestra. Qualche bottiglia, da bere fresca in occasioni speciali, era tenuta sotto il filo d'acqua corrente del lavandino. Per il resto, non si facevano grandi provviste (i supermercati,allora, non esistevano); il quartiere era pieno dei vari negozietti (fornaio, macellaio, fruttivendolo, lattaio) quasi sempre aperti, anche la domenica mattina, e si comperava solo quello che si mangiava quasi subito.
In montagna c'era il pozzo, che ogni famiglia aveva di fianco a casa, o la grande vasca di una fontana, colmi di acqua gelida. Il cocomero e le bottiglie di Albana o Trebbiano per le grandi feste estive si mettevano in un secchio e si calavano a mollo diverse ore prima, per estrarle fredde al momento della bisogna.
Ma erano soltanto fredde, non gelate, e il concetto di "freezer" sfuggiva ai più. Come a un mio lontano parente, che aveva una pista da ballo estiva, e commise l'audacia di ordinare al bar locale (che evidentemente il freezer ce l'aveva) dei gelati (al cioccolato), che arrivarono in artistiche coppette d'alluminio.
Il pover'uomo, sprovvisto di frigo d'ogni genere, le mise al fresco, nel pozzo. Quando fu il momento di servirne una si accorse, suo malgrado, che il tutto si era trasformato in un'orrenda massa semiliquida.
Quella sera, io e una mia lontana cugina ci gonfiammo di quelli che erano stati gelati. Al cioccolato.

Francesco Guccini

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