Una buona notizia

Leggere è riconoscere se stessi, ho letto da qualche parte. Ma forse, più propriamente, leggere è riconoscere gli altri (e pertanto stupirsi dell’altro, imbarazzarsi dell’altro, essere fieri e vergognarsi dell’altro, non comprendere l’altro) ma negli altri incontrare, in qualche obliqua maniera imprevista, se stessi.

Può darsi che sia così, è probabile che sia anche così. In ogni caso la lettura deve senza dubbio avere qualcosa a che fare con gli incontri e con gli altri: e senza dubbio deve essere questa una delle ragioni per il cui il web e i giornali pullulano, in questi giorni di quarantena e isolamento, di consigli di lettura, di elenchi di libri da leggere (ne trovate uno interessante qui), di motivi per andare in libreria: tanto da farle pure aprire, le librerie, e anche questo, mi dico io, sarà sempre il sintomo della stessa forma di ansia, l’indizio sghembo di uno spavento che non sappiamo confessarci.

Ma contemporaneamente, ed è questa la confessione del mio post di oggi, succede che io, per esempio, abbia letto pochissimo in questi giorni di isolamento. Qualche romanzo iniziato e lasciato a metà, qualche saggio letto a pezzi, qualche tentativo di riprendere in mano un classico subito abbandonato… Ne ho trovato una possibile spiegazione (di questa fatica, che non so se è solo mia) in un bell’articolo di Enrico Prevedello (lo trovate qui), tra le cui righe ho potuto leggere così:

I romanzi ci permettono di esperire versioni di mondo alternative alla nostra, attraverso la possibilità di interazione dei personaggi nell’ambiente in cui sono immersi. Penso che la soddisfazione nella lettura derivi anche dalla comprensione della differenza tra la struttura di relazioni tra noi e il mondo in cui crediamo di vivere e la struttura di relazioni del mondo-versione di un romanzo. Il senso di una storia è il risultato di una significazione metaforica tra le relazioni interne alla narrazione (azioni che i personaggi fanno o non fanno in un dato ambiente) messa in confronto con le relazioni che noi, nel nostro ambiente, possiamo fare o non fare. Credo che la difficoltà di leggere romanzi e di scriverne sia dovuta alla mancanza di una delle due parti necessarie al funzionamento della comprensione, ovvero manca la versione consolidata ed evidente del mondo in cui siamo immersi, e questo perché noi comprendiamo la nostra realtà attraverso l’interazione con essa, e non ci siamo ancora adattati al pattern di interazioni di questa nuova realtà limitata che è lo stare a casa.
Ma la sua spiegazione, per quanto colta e acuta, non mi è bastata; e sono quindi finito a pensare agli incontri, alle letteratura come incontro, al riconoscere se stessi e agli incontri che non faccio più: perché sto a casa, perché la vita on line non mi piace abbastanza, perché la gente guarda dal balcone con sguardi incupiti, perché non c’è nessuno da incontrare, nessuno a cui stringere la mano, nessuno a cui offrire il caffè, perché paradossalmente non ho nemmeno nessuno da evitare quando esco di casa, il proverbiale scocciatore, la strada da cambiare per non vederlo e non doverlo salutare…

Non so quindi se leggere sia incontrare se stessi o un altro da sé o se stessi negli altri e tutte queste cose che ho pensato svegliandomi stamattina e che mi hanno fatto iniziare questo post così come l’ho iniziato; in realtà mi importa davvero poco saperlo, stamattina. Perché so molto bene, invece, che se non incontro gli altri (a scuola, per strada, al bar, davanti al mare, in libreria, sulle scale) non ho nemmeno più voglia di leggere. L’ho scoperto a causa di questo confinamento. Mi pare, se ci penso bene, una buona notizia.

Davide Profumo

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