Napule

Buongiorno Briganti della cultura, Leopardi e la Ginestra: l’intellettuale contro il secolo, oggi incontriamo Giacomo Leopardi nel suo momento più alto e tragico: quello della Ginestra, canto ultimo e testamentario, scritto sotto la luce spietata del Vesuvio.

Non è più il giovane erudito che cercava ancora nella poesia un rifugio armonico. Qui, Leopardi è pienamente consapevole della sorte umana, della natura come forza cieca e indifferente, della storia come processo senza finalità.

E proprio per questo, prende posizione. Non arretra, non indulge, non cerca consolazioni spiritualistiche o sistemi filosofici illusori, come fanno invece gli “intellettuali del suo tempo” che egli colpisce con tutto il peso del suo disprezzo:

"Non io con tal vergogna scenderò sotterra; ma il disprezzo piuttosto che si serra di te nel petto mio, mostrato avrò quanto si possa aperto."

C’è qui la figura del poeta-filosofo che, di fronte all’imminenza della morte, rifiuta ogni accordo col falso e rivendica una dignità nuova: quella che nasce non dalla speranza, ma dalla lucidità e dal coraggio intellettuale. È il pensatore tragico, ma non disperato: perché dalla consapevolezza nasce l’unica solidarietà possibile, quella tra esseri umani che sanno di condividere il medesimo destino.

Il paesaggio della Ginestra è il paesaggio vesuviano, osservato a lungo da Leopardi nella sua casa di Napoli, ai piedi del colle di Sant’Elmo. Scrive al padre, il 5 aprile 1834:

«Son passato a godere la miglior aria di Napoli abitando in un’altura a vista di tutto il golfo di Portici e del Vesuvio, del quale contemplo ogni giorno il fumo e ogni notte la lava ardente.»

Il monte Vesuvio diventa il simbolo stesso della natura: "formidabile" e "sterminatrice", incombente e indifferente, come fu per i resti di Pompei, che nella Ginestra affiorano come memoria della fragilità umana. Ma è proprio tra le sue ceneri che nasce il fiore che dà titolo al canto: la ginestra, umile, resistente, consapevole del proprio nulla — eppure capace di vivere e fiorire.

Questo è l’ultimo insegnamento leopardiano: non credere, ma sapere. Non illudersi, ma restare in piedi. Non sfuggire alla verità, ma abitarla. E in questo, proprio il paesaggio napoletano diventa visione e scena di pensiero, solco e sfondo della più grande poesia filosofica della nostra letteratura.La Ginestra, più di ogni altro canto leopardiano, mostra in atto una trasformazione radicale della funzione della natura in poesia. Non è più la Natura idealizzata e ambigua dei primi Idilli, né la matrigna crudele ma ancora interpretabile delle Operette morali. Qui la Natura non parla, non ammonisce, non educa: semplicemente è, con tutta la sua forza distruttiva e muta.

"Natura ordinò: ciò che si estingue, rinasce in altra forma, e tutto muore perché altro viva."

Nel Vesuvio — “formidabil monte sterminator Vesevo” — Leopardi coglie non solo una manifestazione della potenza naturale, ma la figura di una verità cosmica: quella di un universo senza scopo, dove la morte non ha senso, né giustificazione, se non nel meccanismo stesso della materia.

Ed è qui che il simbolo si fa pensiero, e la poesia, filosofia. Il paesaggio vesuviano diventa l’allegoria del destino umano: Pompei distrutta come l’umanità intera, la lava che tutto seppellisce, la cenere che tutto pareggia. Ma — e qui è la grandezza dell’ultima visione leopardiana — tra quelle ceneri fiorisce un fiore, la ginestra, pianta umile, solitaria, resistente.

Essa è il simbolo nuovo, antiretorico, della condizione umana consapevole: non eroismo, non titanismo, ma sobria accettazione, vigile lucidità, fratellanza nata dal sapere di non essere padroni del mondo.

Così Leopardi eleva una lezione che vale oggi più che mai: non c’è redenzione nella storia, né scampo nella natura, ma c’è ancora spazio per una dignità del pensiero, per una nobiltà del sentire. Ed è questo che distingue il poeta dal “secol superbo e sciocco”: il suo non cedere all’illusione, il suo restare saldo nella verità, anche se essa è spoglia, ostile, amara.

E Napoli — non quella folclorica e cartolinizzata, ma quella reale, fatta di fuoco, mare, rovina e bellezza — diventa in questi versi la soglia su cui il pensiero si apre all’infinito. Un infinito senza dio, senza provvidenza, ma colmo di tensione tragica e limpida. 

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