Confessioni di un borghese

... Il lavoro dello scrittore - a prescindere dalla sua qualità - esige che il nostro cuore, il nostro sistema nervoso e la nostra coscienza si arroventino fino a raggiungere una temperatura costante assai più alta della media. Non si può tirare sul prezzo, né chiedersi se «ne vale la pena» -non si può mercanteggiare con un'ossessione, che altri sono liberi di etichettare con la lusinghiera qualifica di «vocazione», mentre da parte mia credo che sia meglio definirla, in maniera nuda e cruda, un'idea fissa... L'uomo «felice» non è creativo; è un uomo felice, punto e basta. Quanto a me, non mi sono mai sentito attratto dalla felicità in quanto obiettivo da perseguire metodicamente; la felicità l'ho sempre vista con un' ombra di disprezzo, e mi rendo conto che si tratta di un'attitudine morbosa. ..."
"... Una volta uno scrittore mi ha insegnato che l'insoddisfazione e l'irrequietezza sono il morbo che affligge l'uomo occidentale. E una donna mi ha insegnato che questa è la «malattia dello scrittore», che preclude all'uomo di pensiero ogni soddisfazione che non sia di ordine professionale. Può darsi che io sia uno scrittore. Il desiderio di evadere mi perseguita sin da quei tempi, e in determinate fasi riaffiora nella mia vita con prepotenza, manda per aria il mio quadro esistenziale, mi trascina in situazioni riprovevoli, in crisi sgradevoli e incresciose. Fu così che più tardi scappai dalla professione a cui ero stato destinato, fu così che a volte evasi dal mio matrimonio, fu così che mi trovai invischiato in «avventure» che non vedevo l'ora di lasciarmi alle spalle, fu così che ruppi legami sentimentali e amicizie; e fu così che da giovane peregrinai di città in città, abbandonando orizzonti familiari per orizzonti sconosciuti, fino a quando la mia esistenza vagabonda non mi apparve una condizione naturale: il mio sistema nervoso si adattò a questa sensazione di allarme, e pervenendo a una sorta di «disciplina» artificiale incominciai infine a lavorare... Ancora oggi vivo così, tra due treni, due evasioni, due fughe, come chi non sappia mai quale rischiosa avventura interiore lo attenda al prossimo risveglio. Sono ormai avvezzo a questo stato. Fu dunque così che tutto cominciò. ..."
"... In che modo si diventa scrittori? ...Non lo so. Non ricordo una «esperienza» isolata, legata a un evento preciso, che avrebbe potuto rivelarsi «decisiva» nel conferirmi un particolare tipo di vista e di udito e nell'imprimermi la mentalità di uno scrittore, scatenando così in me una vocazione. Ho voluto scrivere da sempre. Non sono mai stato sfiorato dall'idea che avrei potuto ricorrere anche ad altri mezzi d'espressione, oltre a quello del pensiero tradotto in forma scritta. A quattordici anni ero scrittore almeno quanto lo sono adesso; certo, non sapevo scrivere, ma consideravo la vita come un' occasione per esprimermi e avevo un buon orecchio per il suono della letteratura, che forse coglievo più istintivamente di oggi. Oggi mi confondono i dubbi, le esperienze e i molti tentativi già compiuti, commetto parecchi errori, e durante il lavoro mi accompagna costantemente la responsabilità del compito, insieme all'incertezza e a un tormentoso senso di insoddisfazione alimentato dalla consapevolezza dei miei limiti. Credo che con Donyi iniziammo puntando un tantino troppo in alto: nientedimeno che Shakespeare e Tolstoj. E nutrivamo un sommo disprezzo per tutto ciò che non era «pura» letteratura...
Non sapevamo - e come avremmo potuto saperlo? - che la letteratura non consiste soltanto nella somma dei massimi risultati; eravamo tutt'altro che modesti, e pretendevamo troppo anche da noi stessi, sicché non tardammo a perdere la voce. Nel corso della sua breve vita Donyi scrisse soltanto poche righe, e non osò mai affrontare lavori impegnativi, paralizzato da un sacro rispetto per la professione; quando io smarrii la strada e mi diedi al giornalismo, lui, quasi sentendosi tradito, mi supplicò come un monaco che voglia indurre alla ragione un confratello sul punto di abiurare la sua fede; poi mi abbandonò al mio destino... Da ragazzi giocavamo «allo scrittore» senza neanche essere sfiorati dall'idea che si potesse giocare a qualcos'altro. Dacché ho l'età della ragione ho sempre voluto scrivere, e oggi ho la sensazione che sin dall'infanzia ho continuato a lavorare non tanto a singoli compiti quanto a una specie di «opera» unitaria, che è imperfetta, approssimativa, disseminata di erbacce e di ciarpame; ma al di là dei compiti occasionali, ciò che mi preme è proprio questo tutto, di cui cerco di ravvisare i contorni; talvolta vedo già delinearsi chiaramente l'uno o l'altro particolare, mentre l'insieme, naturalmente, rimane indistinto e inafferrabile... Donyi mi ha insegnato che bisogna parlare soltanto con voce limpida e in momenti solenni. Ma io ancora oggi non smetto di ciarlare compulsivamente, come spinto dal terrore della morte. ...

Sándor Márai: da "Confessioni di un borghese" Adelphi Edizioni, 2003

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