La sorella

Mi accingo a raccontare qui l' esperienza che mi accadde di vivere in quella strana notte di Natale.
Era,il terzo dall'inizio della seconda guerra mondiale. E passato molto tempo da allora, e i giorni e le notti che seguirono a quella serata ci hanno portato miseria e sofferenze. Ma il ricordo di quell'incontro è rimasto sempre vivo nel mio cuore e nella mia mente: non sono riusciti ad affievolirlo ne l'annuncio della distruzione di intere città, ne il dubbio e l'angoscia che in quel tempo turbavano gli animi riguardo al futuro dell'umanità, e neppure le immani disgrazie che si abbatterono su di noi con inaudita crudeltà. Ciò che appresi non riguardava la sorte di interi popoli, o di continenti, bensì il destino di un solo uomo: ma il fato può scagliarsi contro un solo uomo con la stessa cieca e inesorabile ferocia con la quale si abbatte sulla sorte di interi popoli.
A combinare quell'incontro natalizio fu il caso, naturalmente, che interviene in ogni momento cruciale della nostra vita. Mai avrei potuto immaginare che in pieno inverno, in una piccola stazione termale sperduta fra le montagne, in quell'albergo da quattro soldi che assomigliava a un casino di caccia, piuttosto carente in fatto di comodità moderne, mi sarebbe capitato di avere come vicino di stanza proprio Z., il celebre Z., il grande musicista che fino a qualche anno prima veniva osannato dalle platee dei più importanti teatri del mondo. Il nostro incontro mi scosse profondamente, perché l'uomo che mi trovai di fronte nella sala da pranzo di quell'alberghetto in mezzo ai monti della Transilvania - un locale disadorno costruito con assi di abete grezzo -non era che l' ombra dell'uomo divenuto leggenda grazie ai propri trionfi, e il cui nome era fino a qualche tempo prima tra i più illustri del mondo della musica. Quella visione mi avrebbe scioccato, quale prova vivente della caducità della fama e della gloria umane, se i modi e il comportamento di Z. non mi avessero convinto che egli sopportava il proprio destino non soltanto con una notevole forza d'animo, ma anche con grande serenità. La disgrazia non l'aveva offeso ne umiliato, e nemmeno piegato. E in quella serenità non vi era traccia di rancore: Z. non recitava la parte dell'esacerbato Coriolano costretto ad abbandonare la sua patria, il regno misterioso della musica. Quella calma straordinaria si rifletteva nel suo sguardo, come una luce interiore che si irradiasse dalla sua anima mite e serena.
Sin dal primo istante in cui lo vidi, il suo istinto di musicista gli dettò un tono che mi tranquillizzò: mi trovavo di fronte a un uomo che era ormai pienamente consapevole del proprio destino e che lo accettava senza ribellarsi; e io non avevo alcun diritto di commiserarlo, per nessun motivo. La sua pacata dignità e la sua austera umanità mi tranquillizzarono, certo, ma mi indussero anche a un istintivo riserbo: sentivo di dover rispettare la sua solitudine, il suo atteggiamento umile ma refrattario a ogni compassione; sentivo di non avere alcun diritto di turbare il suo equilibrio spirituale con insulse manifestazioni di pietà.
Tutto questo lo avvertii nell'istante stesso in cui ci incontrammo - ma i giorni che seguirono sono scolpiti nella mia memoria come una sorta di esame di buone maniere. L'alberghetto di montagna era infatti un'ottima occasione per cimentarsi nell'ardua materia del savoir-faire coatto: mattino, mezzogiorno e sera ci si incontrava nell'unico ambiente comune, intorno al rustico caminetto della sala da pranzo odorosa di abete, dove -alla luce non certo abbagliante dei lumi a petrolio -i pochi ospiti non potevano far altro che sedersi intorno al tavolo rotondo, e ammazzare il tempo leggendo, giocando a carte, conversando o tormentando le manopole della radio a batteria. Perché il tempo, questa strana dimensione, aveva assunto tra quelle montagne i connotati di un pericoloso nemico: da giorni imperversava una pioggia mista a nevischio, e sulle vette, a metà dicembre, le nevi si scioglievano provocando valanghe grigie e sporche che rovinavano verso il fondovalle. Uscire a passeggio era quindi del tutto fuori questione. Unico contatto con il villaggio situato a valle in riva al torrente, e distante parecchie ore di calesse dalla stazione ferroviaria più vicina, era un sonnacchioso pastore rumeno che ogni giorno si inerpicava, per la strada sdrucciolevole e pericolosissima, su di un carro trainato da un cavallino tarchiato con una buffa criniera arruffata per portare la posta, la carne e tutto ciò che mancava alla dispensa della locanda. Una nebbia umida avvolgeva le cime dei monti come le nuvole di fumo soffocano i grattacieli di una grande città dopo un incendio o un bombardamento. L 'umidità penetrava nelle camere, la nebbia sporca impregnava coperte e asciugamani, persino i vestiti appesi negli armadi, e sin dalle prime ore del mattino gli ospiti fuggivano da quelle tane scomode e anguste, nelle quali si trattenevano il meno possibile brancolando tra i mobili alla luce fioca delle candele, tremando di freddo nei letti umidi e lavandosi in tinozze di latta. Tra le montagne e sulla vallata soffiava ululando un caldo vento di scirocco. Ogni tanto, verso mezzogiorno, la colonnina di mercurio saliva fino a otto gradi -un clima assurdo in montagna, a dicembre! Tutto quello che noi, naufraghi sperduti in quell'alberghetto di montagna, avevamo fantasticato mentre lasciavamo le nostre abitazioni cittadine: le rocce scintillanti sotto i bagliori del sole invernale, le ore passate a godersi i benefici delle radiazioni ultraviolette sugli altipiani innevati, le meravigliose passeggiate sulla neve che scricchiola, a mille cinquecento metri di altezza, tra il profumo degli abeti nei boschi impenetrabili di conifere, e poi le tranquille serate nel salone della locanda, che nella fotografia appesa nell'agenzia turistica ci aveva irretito con la sua calda e accogliente intimità; tutto questo., nella realtà, si era mutato in una esasperante inerzia, squallida e insalubre. Il lavoro che avevo preso con me giaceva in fondo alla valigia, perché ne in quella stanza simile a una cella di isolamento, ne tanto meno nella sala da pranzo avevo trovato un tavolo abbastanza ampio per disporre a dovere i miei appunti; in compenso, nei primi quattro giorni di quella reclusione forzata, avevo divorato buona parte dei libri che avevo portato con l'intenzione di nutrire lo spirito. Dalla mattina alla sera tardi, simili ai passeggeri dell'arca di Noè, ci pigiavamo nella sala calda, soffocante, fumigante degli odori dei corpi e delle pietanze, rimpinzandoci di cibo più che altro per combattere la noia, mandando giù un vinaccio aspro per risciacquare la bocca dalle vivande unte e grasse. Naturalmente, tra gli abitanti dell'arca c'erano anche alcuni quadrupedi: un vecchio cane pastore dal pelo arruffato, una gatta fannullona e parassita, i suoi gattini, una ghiandaia rinchiusa in una gabbia appesa accanto alla stufa, uno scoiattolo che nella sua prigione correva come un forsennato sul mulinello: un autentico serraglio domestico ravvivava la nostra convivenza; e di tanto in tanto, con la naturale fiducia che alcune creature mostrano nei confronti degli altri esseri viventi, attraverso la porta aperta infilava il muso barbuto un vecchio caprone, il borioso presidente onorario dell'assemblea degli animali di quel piccolo insediamento, che ammiccando e facendo tremolare la barbetta appuntita si fermava lì sulla soglia, come se, ancora fresco in lui il ricordo della idilliaca convivenza di uomini e bestie nel paradiso terrestre, attendesse di essere invitato a prender posto in mezzo a noi. Quest'ultimo, però, a causa del suo olezzo poco gradevole, veniva scacciato in malo modo persino dai padroni.
Sull'arca eravamo in sette, sette bipedi che aspettavano che la pioggia cessasse e tornasse a splendere il sole: sette ospiti, oltre al proprietario e a sua moglie, rumeni di Regcit, entrambi di corporatura massiccia e gesti flemmatici, ma benevoli e premurosi, che parlavano un ungherese molto stentato, e al personale: due ragazze e un pastore, che d'estate abitava a fondovalle e d'inverno veniva a lavorare come cameriere nel rifugio montano. Perché in realtà quel sedicente alberghetto termale non era che un rifugio: di tutto quello che prometteva l'ingannevole volantino solo le montagne si erano rivelate all'altezza delle aspettative. A ogni modo, comunque, erano anch'esse avvolte dalla nebbia, e immerse nella pioggia e nel nevischio. Quando l'inverno è freddo e secco, quel paesaggio rappresenta una vera delizia per il turista: anche nella nebbia si riesce a godere il profumo vivificante dell'aria.

Sándor Márai - Da "La sorella", Adelphi Edizioni, 2006

Commenti

Etichette

Mostra di più