Le notti insonni col mio Buzzati

Io, la musa di Buzzati? Mah…». Ride Almerina, bellissima ancora oggi, come quando a 20 anni si innamorò dello scrittore, 35 anni più vecchio di lei. «Non so. Per me era naturale posare per lui, stargli accanto in quelle lunghe notti insonni. Dino dormiva pochissimo, quattro ore al massimo. Stava sveglio, seduto a questo tavolo, a dipingere, disegnare, inventare. Voleva che la finestra fosse sempre aperta, amava ascoltare il respiro della città». Almerina, l’ adorata moglie di Buzzati, che visse con lui fino alla morte, nel ‘72, si alza dal divano bianco. Apre le tende di lino e la vista spazia, dal decimo piano della sua meravigliosa casa, su una Milano che Dino Buzzati amava di un amore contraddittorio, dipingendola come l’ inferno nella sua opera più emblematica, quel Poema a fumetti del ‘69. Ma chi era veramente Buzzati? Scrittore? Pittore? Giornalista? «Bella domanda - ride ancora Almerina - Era tutto questo assieme. Certo, la cosa per lui più naturale era la pittura, il disegno. Non prendeva mai appunti. Faceva degli schizzi. Si sedeva e creava quelle sue misteriose, geniali figure. Quando venivano a trovarci gli amici con i figli piccoli, Dino era contentissimo. Cominciava a raccontare favole e a disegnare sulle mani, sulle braccia di quei bambini i protagonisti delle sue storie. Il figlio di Orio Vergani, Guido, quando veniva da noi, si metteva subito a petto nudo per farsi disegnare addosso». Da dove veniva questo suo eclettismo? «Era curioso. Non si fermava mai. Non sapeva stare fermo senza fare niente. Amava la musica e detestava il silenzio, gli faceva paura. A meno che fosse quello delle sue montagne, il silenzio puro. Ma quando eravamo qui in casa, anche quando dormiva, teneva la filodiffusione accesa». E lei che cosa faceva durante quelle nottate? «Stavo con lui. Mentre lui preparava Poema a Fumetti, mentre dipingeva, io giocavo con lui. Facevamo finta di fare una partita a golf». In casa? Ride. «Certo, qui». Ma non era solo un pittore. Il Corriere era la sua seconda casa. «Certo. Alla mattina scriveva, seduto lì, con la macchina sulle ginocchia. Verso le 10.30 andava al giornale. Tornava per pranzo e poi stava ancora lì fino alle otto di sera, salvo eventi eccezionali. Ma poi c’ erano gli amici, le cene. Milano allora era tutta un’ altra cosa. Le case erano aperte, c’ erano le prime, le gallerie, il teatro. Non stavamo mai soli. Eravamo circondati da artisti. C’ era proprio un altro clima, rispetto ad oggi». E lei era giovanissima. Molto diversa dalle dame della buona borghesia. «A queste cene erano tutte vestite d’ alta moda. Io ero un’ altra cosa. Amavo molto lo stile militare. Ho ancora nell’ armadio un mantellone nero da carabiniere. Una volta, mentre stavo andando a prenderlo al Corriere, venni fermata davanti alla caserma di via Moscova dai militari. Dino si divertì moltissimo a sentire la storia». La vostra casa è rimasta come allora. «Non ho cambiato niente, del mondo di Dino. Tutti questi quadri appesi al soffitto, come avevamo deciso assieme. I suoi libri, i disegni, le nostre cose. Mi tengono compagnia. Come le sue opere, che mi hanno aiutato tanto, dopo. Lui, prima, non voleva che io leggessi niente di suo, non amava parlare del lavoro. Non mi spiegava. Avevamo altro a cui pensare, altro da fare. La nostra era una vita bellissima.

Da un articolo di Zita Dazzi

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