Barbino...

A Barbino non era dato di sapere di più. Sentiva però la vastità di una domanda, sempre la stessa e sempre più seducente, e che equivaleva a buttare olio sull’incendio in atto nelle sue animelle in nuce, che la Rosy faceva a tutti i suoi avventori, anche a quelli di passaggio, che non aveva mai visto prima. La scena si presenta così, arriva dentro uno nell’osteria e le dice, “Un caffè, Rosy” o “Un marsalino, siura” e lei, “Come stet, Gioan?” o “Come va fuori, sior?” e Gioan rispondeva “Sto bene, e te?” e lo sconosciuto “La va, la va, e a lé?”, “Io bene tanto” e qui, dopo una pausa impercettibile, la Rosy scoccava sia al Gioan che allo sconosciuto la sua solita frecciatina intinta nella voce più roca: “E l’amore?”. Cos’era l’amore, quel suono che in dialetto non esisteva e che si poteva dire solo nella lingua dei signori? L’amore? Che poi la Rosy poteva intendere solo, e con compassione non inferiore al sarcasmo, ‘Te, bello, guarda che a me non me la racconti, sia che tu abbia tre vacche in croce sia una filanda: o vali qualcosa nell’amore o non vali una cicca’. Valere qualcosa nell’amore significava essere valenti nell’essere amati o amare bastava? Perché amare e essere amati era un’esagerazione che in una frazione come Vighizzolo non succedeva di certo, e non era certo successo alla Rosy, ma nelle città chissà. E poi gli piaceva stare più in compagnia delle donne che non in quella degli uomini perché le donne avevano cose, e quindi parole o almeno suoni da favola, che gli uomini si sognavano: intanto avevano le loro, poi il mestruo, l’estro, il Principe Azzurro, o, minimo, il Marchese, portato via infine dalla Menopausa, tipa a lui sconosciuta, certo non di quelle parti lì…

Aldo Busi, Seminario sulla gioventù

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