Le prigioni che abbiamo dentro

Mi chiedo spesso come appariremo a chi verrà dopo di noi. E non è una domanda oziosa, ma un tentativo deliberato di potenziare la forza dell‘“altro occhio” che possiamo usare per giudicarci. Chiunque si occupi di storia sa che le convinzioni più radicate e appassionate di un secolo per lo più appaiono ridicole a quello successivo. Non c’è epoca della storia che ci appaia così come deve essere apparsa a chi l’ha vissuta. Quello che sperimentiamo personalmente, in ogni tempo, è il prodotto dell’impatto che hanno su di noi le emozioni di massa e le condizioni sociali dalle quali ci è praticamente impossibile isolarci. Spesso le emozioni generali sono quelle che ci appaiono più nobili, le migliori e le più attraenti. Eppure, nel giro di un anno, di cinque anni, di un decennio, di cinquant’anni, la gente si chiederà: “Ma come avranno fatto a pensarla a quel modo?”, perché nuovi eventi avranno bandito le suddette emozioni diffuse, scaricandole - per così dire - nel secchio della spazzatura della storia.

D. Lessing, Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà, Roma 2007, p. 14

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