Alla figlia Scottie

La poesia o è qualcosa che vive come fuoco dentro di te - come la musica per i musicisti o il marxismo per i comunisti - o non è niente, una noia vuota e formale sulla quale i pedanti possono borbottare all’infinito le loro note e spiegazioni. L’«Urna greca» è insostenibilmente bella e ogni sua sillaba è inevitabile come le note della Nona Sinfonia di Beethoven oppure è solo qualcosa che non capisci. È quello che è perché un genio straordinario sostò a quel punto della storia e le diede vita. Immagino di averla letta cento volte. Verso la decima volta ho cominciato a capire di cosa trattasse, e afferrai la musica e la squisita meccanica interna. Idem per l’«Usignolo» che non posso mai leggere dall’inizio alla fine senza che mi vengano le lacrime agli occhi; idem per «Il vaso di basilico» con la grande strofa sui due fratelli, «Perché erano orgogliosi ecc.» e «La vigilia di Sant’Agnese», che ha le immagini più ricche, più sensuali, di tutta la lingua inglese, non escluso Shakespeare. E infine i suoi tre o quattro grandi sonetti, «Chiara stella» e gli altri.
Conoscendo queste cose da giovanissimi, e se si ha orecchio, sarebbe impossibile non saper distinguere l’oro dalla scoria nelle proprie letture. Da sole quelle otto poesie valgono come misura di capacità per chiunque voglia veramente sapere qualcosa sulle parole, il loro massimo valore di evocazione, persuasione o fascino. Per un po’ dopo che hai letto Keats ogni altra poesia sembra solo un fischiettare e canticchiare a bocca chiusa.

Francis Scott Fitzgerald alla figlia Scottie
Hollywood, California, 3 agosto 1940. (da Lettere a Scottie)

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