Nomi propri

Una parte della sua infanzia è stata dedicata ad un ascolto particolare: quello dei nomi propri della vecchia borghesia bayonnese, che egli sentiva ripetere per giornate intere da sua nonna, appassionata di mondanità provinciale. Tali nomi erano molto francesi e, pur dentro a questo codice, tuttavia spesso molto originali; formavano una ghirlanda di significati strani alle mie orecchie (tant’è che me li ricordo benissimo: perché?): le signore Lebœuf, Barbet-Massin, Delay, Voulgres, Poques, Léon, Froisse, de Saint-Pastou, Pichoneau, Poymiro, Novion, Puchulu, Chantal, Lacape, Henriquet, Labrouche, de Lasbordes, Didon, de Ligneroles, Garance. Come si può avere un rapporto d’amore con dei nomi propri? Non v’è sospetto di metonimia: quelle signore non erano desiderabili, nemmeno carine. Tuttavia, impossibile leggere un romanzo, delle Memorie, senza questa ghiottoneria particolare (leggendo Madame de Genlis, sorveglio con molto interesse i nomi dell’antica nobiltà). Non serve soltanto una linguistica dei nomi propri; serve anche un’erotica: il nome, come la voce, come l’odore, sarebbe il termine d’un languore: desiderio e morte: «l’ultimo sospiro che resta delle cose», dice un autore del secolo scorso.

Roland Barthes, Barthes

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