Il silenzio della virtù

Ora, comincerò questo articolo con Il barone rampante. Fino a qui, nulla di strano. Se non fosse che finirà con Salò o le 120 giornate di Sodoma. Sono ammattito? Aspettate a dirlo, tanto più che posso ben farlo, ho qui un’arma diabolica. Un filo. Un filo capace di legare qualsiasi cosa, lo chiamano ragionamento.

Allora, quando lessi Calvino, quel Calvino, a un certo punto dovetti fermarmi. Non ero stanco, anzi. Non avevo conosciuto lettura più agevole. Fui infastidito perfino dal mio proposito, ma dovetti farlo. C’erano cinque o sei frasi di un peso specifico maggiore, anzi enorme. Reclamavano tutte una matita. E una sottolineatura.

“Uno sfrascar sui rami ed ecco, da un alto fico affaccia il capo Cosimo, tra foglia e foglia, ansando. Lei, di sotto in su, con quel frustino in bocca, guardava lui e loro appiattiti tutti nello stesso sguardo. Cosimo non resse: ancora con la lingua fuori sbottò: – Sai che non sono mai sceso dagli alberi da allora ? Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino. Così mio fratello appena pronunciate quelle parole non avrebbe mai voluto averle dette, e non gli importava più niente di niente, e gli venne addirittura voglia di scendere e farla finita.”

Perché questo passo? Perché oggi vogliamo dimostrare una cosa: che la parola, quella, diciamo così, volgare, spiccia, invece di nobilitare una virtù intima, un’impresa di tenacia interiore, come la chiama Calvino, la vanifica. Solo la letteratura- e quindi la parola divenuta arte- è in grado di elevarla (insieme alle altre arti, naturalmente).

Nel film di Sorrentino, La grande bellezza, c’è a un certo punto un personaggio che, se a prima vista e in un determinato contesto può suscitare nello spettatore una certa diffidenza o apparire addirittura inquietante, in una scena successiva acquisterà tutta la sua magnificenza. E’ suor Maria, una missionaria di 104 anni. Quando viene invitata a casa di Jep sono gli altri a parlare per lei, sono gli altri a celebrarne la santità. Muta, con le sue rughe, la sua vecchiaia e la sua sofferenza sembrerebbe l’ennesimo ostaggio inerme di sciacalli senza scrupoli. Gente che vorrebbe sfruttarne “l’immagine”. Ma se quelle parole non sono per niente credibili, è nella scena in cui è sola e cammina inginocchiata sulle scale, quando offre il suo sacrificio a Dio, non esibito, nascosto, che quel silenzio parlerà per lei .

Mentre la virtù, allora, non ha bisogno delle parole per essere rivelata- un certo tipo di parole – ma anzi proprio queste hanno il potere di annientarla agli occhi degli altri, il vizio, quello sì che ne ha bisogno.

Nel 1975 il genio e direi anche il folle coraggio di un intellettuale d’altri tempi, porteranno a compimento un’opera estrema. Pasolini con il suo Salò pagherà un prezzo troppo alto nei confronti dei moralisti, ma questo lui lo sapeva, lui che forse proprio i moralisti disprezzava più di tutti. Non è solo per infastidirli che mette in piedi questo teatrino ripugnante, la ragione principale è un’altra. Vuole dimostrare che il potere è anarchico. E allora a quei potenti malati, la parola, quella delle narratrici che nella Sala delle Orge racconteranno a turno le proprie perversioni sessuali allo scopo di eccitarli, la parola, dicevamo, servirà, servirà eccome. Per alimentare ancora di più quei vizi orrendi, quella libidine. Causa ed effetto del male.

Raffaele Romanzi

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