L’amore molesto

(…) Così fui dimenticata per strada. La folla dei pa­renti si era ritratta verso le periferie da cui era ve­nuta. Mia madre era stata sotterrata da becchini maleducati in fondo a un interrato maleodorante di ceri e di fiori marci. Io avevo mal di reni e crampi al ventre. Mi decisi a malincuore: strisciai lun­go la parete rovente dell’Orto Botanico fino a piazza Cavour, in un’aria resa più pesante dai gas delle automobili e dal ronzio di suoni dialettali che decifravo malvolentieri. Era la lingua di mia madre, che avevo cercato inutilmente di dimenticare insieme a tante altre cose sue. Quando ci vedevamo a casa mia, o venivo io a Napoli per visite rapidissime di mezza giornata, lei si sforzava di usare uno stentato italiano, io scivolavo con fastidio, solo per aiutarla, nel dialetto. Non un dialetto gioioso o nostalgico: un dialetto senza naturalezza, usato con imperizia, pronunciato stentatamente come una lingua straniera mal nota. Nei suoni che articolavo a disagio, c’era l’eco delle liti violente tra Amalia e mio padre, tra mio padre e i parenti di lei, tra lei e i parenti di mio pa­dre. Diventavo insofferente. Presto ritornavo al mio italiano e lei si accomodava nel suo dialetto. Adesso che era morta e che avrei potuto cancellarlo per sempre insieme alla memoria che veicolava, sentirmelo nelle orecchie mi causava ansia. (…)

— Elena Ferrante - Brano tratto dal romanzo L’amore molesto

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