Il dominio maschile

Certe forme di “coraggio”, quelle richieste o riconosciute dagli eserciti o dai corpi di polizia (e in modo particolare dai cosiddetti “corpi speciali”), dalle bande di delinquenti ma anche, più banalmente, da certi collettivi di lavoro e che, nel settore dell’edilizia in particolare, invitano o costringono a respingere le misure di sicurezza e a negare o sfidare il pericolo con comportamenti temerari, responsabili di numerosi incidenti, hanno la loro radice, paradossalmente, nella paura di perdere la stima o l’ammirazione del gruppo, di “perdere la faccia” di fronte ai “compagni” e di vedersi relegare nella categoria tipicamente femminile dei “deboli”, degli “omiciattoli”, delle “femminucce”, dei “finocchi” ecc. Quello che chiamiamo coraggio trae così origine a volte da una forma di viltà. Per convincersene basterà ricordare le situazioni in cui, per indurre a commettere omicidi, torture o violenze carnali, la volontà di dominio, di sfruttamento o di oppressione si è appoggiata sul timore “virile” di escludersi dal mondo degli “uomini” inflessibili, da quelli che a volte si dicono “duri” perché resistono alle loro sofferenze ma anche e soprattutto alle sofferenze degli altri, assassini, torturatori e capetti di tutte le dittature e di tutte le “istituzioni totali”, anche le più comuni, come le prigioni, le caserme o i collegi, ma anche i nuovi padroni d’assalto che l’agiografia neoliberista esalta e che, spesso sottoposti anch’essi a prove di coraggio corporeo, manifestano la loro maestria licenziando una nozione eminentemente relazionale, costruita di fronte e per gli altri uomini e contro la femminilità, in una sorta di paura del femminile, e innanzitutto di sé stessi.

— Pierre Bourdieu, Il dominio maschile (pg 64-65 ed. Feltrinelli)

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