Il bambino che saliva sugli alberi

Cominciai la mia carriera di alpinista arboreo con il fico, perché i fichi migliori spesso sono nascosti in cima. Sembra un albero facile da scalare perché è basso, ma è insidioso, alcuni rami sono fragili e li devi percorrere in orizzontale. Sono caduto tre o quattro volte da un fico, ma mi è andata sempre bene. E sul fico hai sempre un subdolo concorrente:la vespa o l’ape, che ama tuffarsi nel molle frutto come in una piscina. E pungono di brutto.
Il ciliegio è una scalata meravigliosa. Ha la sua difficoltà sportiva, specialmente nella prima parte dove spesso devi arrampicarti alla tahitiana, senza grossi rami. E’ spesso colloso di resina, ruvido e pieno di bozzi. Ma una volta in cima hai raggiunto un vero paradiso, un purpureo esuberante banchetto. L’insidia ovviamente è nella golosità. Come dice il proverbio, non smetti mai di desiderare le ciliegie, nel mio caso i duroni che sono una ciliegia grossa e sugosa che dà dipendenza . Ricordo almeno una decina di mangiate favolose, una in compagnia di una bambina agile come una scimmia. Ricordo che dopo una scalata ebbi una colica di tre giorni e giurai di non mangiare mai più il seducente piccolo frutto. Il quarto giorno stavo già scalando un albero di marasche, le ciliegie dal sapore aspro. Nuova colica. Se cominci con la droga Red purple non smetti più.
L’albicocco è facile da scalare, ma ricordo che preferivamo tirare giù i frutti a bastonate. E così il nocciolo e il pero e il melo, alberi bassi e non impegnativi. Ho sempre snobbato il cotogno, forse perché mia nonna ci faceva quintali di marmellate.
Parlerò ora dei miei preferiti. Il noce, l’ippocastano, il castagno
Nel prato a est della mia casa di campagna c’era un noce favoloso, un antico gigante. La noce deve maturare, nel suo cappotto di mallo e legno rugoso, ma chi poteva aspettare? Perciò cominciavo a scalarlo quando i frutti erano ancora acerbi, bianchi, allappanti. E’ un errore mangiarli direttamente sul ramo, meglio farne una tascata e scendere. Ma io riuscivo a banchettare appollaiato come un uccello, rompendo il guscio contro il tronco. Ricordo una caduta di almeno tre-quattro metri, con sbucciatura di gomiti, sangue e sopracciglio tagliato. Dissi a mio nonno che ero caduto in bicicletta. Guardò il noce, vide i danni che avevo fatto e mi tirò una pagnotta in testa. Era il suo modo per dire che non mi credeva.
Il castagno: non c’era bisogno di scalarlo, perché i ricci gonfi di castagne cadevano da soli. E la castagne crude sono buone, ma non puoi mangiarne tante. Era uno degli alberi che amavo di più, rami forti e dai percorsi fantasiosi, ottimo per nascondersi e tendere agguati nel bosco. Una volta restai nascosto in cima al mio castagno preferito fino a mezzanotte, perché avevo combinato un guaio. Mio nonno mi scovò alla luce della luna, puntò il fucile e disse. “Oh che bel tordo c’è la in cima”. Scesi in pochi secondi.
Ma per qualche motivo, l’albero che sfidavo più spesso era un ippocastano. Dà frutti chiamati i marroni d’India, che piacciono solo ai maiali, ma aveva un’ attrattiva irresistibile: altissimo e pieno di vie, era l’Everest della mia campagna. Perciò lo scalavo fino ad altezze inimmaginabili, con l’incoscienza della mia età. Andò bene fino a un giorno di vento. L’albero iniziò a sgroppare come una cavallo imbizzarrito e mi scrollò dal ramo. La caduta avvenne sotto gli occhi di mio zio. Durò (o così mi sembrò), circa un’ora. Cadevo, battevo su un ramo, rimbalzavo, precipitavo ancora, pensavo “stavolta è finita” altro ramo, altra botta sette otto volte, finché mi trovai sul prato riverso sulla schiena, senza riuscire a respirare.
Sentii sopra di me la voce di mio zio che diceva: Odio l’è mort (Oddio, è morto)
Nessuno aveva il coraggio di toccarmi. Passò un lungo minuto. Poi mi alzai pezzo per pezzo. Non mi ero fatto niente, solo qualche livido, i rami avevano attutito la caduta l’ippocastano Everest aveva perdonato la mia audacia . Ma non lo scalai più.

Stefano Benni

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