K2 Il prezzo di un sogno

Valentino Paparelli - K2, Il prezzo di un sogno

How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Bob Dylan, Blowin’ in the Wind

10 giugno. In viaggio

Finalmente si parte.
All’inizio, questo viaggio l’ho soltanto sognato, così come lo sogna qualsiasi alpinista, qualsiasi appassionato di montagna. Era soltanto un desiderio vago, che ha cominciato a definirsi meglio e ad assumere la veste della possibilità quando è iniziato il tam-tam del Cinquantenario della conquista italiana del 1K2. Poi, si è concretizzato rapidamente quando ho letto sulla rivista del CAI la prima proposta di programma. Sono stato io il primo a stupirmi della velocità con la quale la decisione di mettermi in gioco, partecipando, è maturata.
Poi è iniziata la lunga attesa, diventata ben presto ansia e trasformatasi negli ultimi giorni in frenesia, scandita dal ritmo anch’esso sempre più incalzante, della preparazione fisica. Durante l’attesa l’ho sognato e immaginato sempre più spesso, questo viaggio, aiutato e provocato dallo studio di carte topografiche, dalle letture di libri e resoconti e, soprattutto, dalle molte foto viste e studiate fin nei minimi particolari, fino a immergermi pressoché totalmente in esso, in preda a un processo di straniamento che credo sia stato piuttosto visibile.
Questo viaggio l’ho anche temuto. È accaduto abbastanza spesso. Tutte le volte che, in allenamento, sottoponevo il mio fisico a test particolarmente impegnativi; le tante volte che mi sono chiesto se ce l’avrei fatta; quando focalizzavo l’attenzione sul principale nemico, il mal di montagna, che è anche il più subdolo dal momento che ad alta quota può attaccare chiunque, dovunque e in qualsiasi momento.
Dunque, è con un senso di liberazione che mi ripeto: finalmente è iniziato! E mi rendo conto che è iniziato almeno quattro volte. Questa mattina, quando ho salutato Franca, mia moglie, e con Silvia, mia figlia, ci siamo diretti all’ aeroporto; nella sala d’imbarco di Fiumicino, dove, appena ricevuta la telefonata di saluto di mio figlio Alessandro, ho incontrato i primi compagni d’avventura, inconfondibili in mezzo ai viaggiatori “normali” per via di zaini e abbigliamento; nella sala d’imbarco dell’ aeroporto di Malpensa, dove abbiamo fatto scalo e dove abbiamo incontrato il grosso della spedizione. Ma la sensazione di essere partito davvero: l’ho avuta quando, sull’aereo, mi sono ritrovato al centro del gruppone, allegro e gioviale come sanno esserlo i montanari veneti, degli Scoiattoli di Cortina, anch’essi diretti al K2. Festeggeranno il 500 anniversario della sua conquista con un programma autonomo, rispetto a quello della spedizione ufficiale. Ma anche il loro prevede il tentativo della vetta, anche se con l’aiuto dell’ossigeno.
Ormai il clima della spedizione è percepibile epidermicamente. Si parla di quello, si legge di quello, si pensa solo a quello. E bello sentirsi partecipi di una tensione collettiva e fortemente condivisa.
Vengo a sapere dai cortinesi che a Malpensa solo pochi metri mi hanno diviso da Lino Lacedelli, il primo uomo a calcare cmquant’anni fa la vetta del K2, che ha voluto accompagnare i “suoi” Scoiattoli fino all’aeroporto. Tra qualche giorno, a dispetto dell’età avanzata, proverà con qualsiasi mezzo a raggiungerli in quel campo-base che è stato anche il suo campo-base. Avrei tanto voluto stringergli la mano. Comunque, miglior viatico per la nostra spedizione non si poteva sperare.
Dunque, questo viaggio, già fatto mentalmente così tante volte da risultare in parte consumato, è iniziato davvero. Non ho più bisogno di ripetermelo. Ormai le parole che mi arrivano dai vari punti dell’aereo sono consuete e rassicuranti: spedizione, spigolo, cresta, piccozza, parete, Lacedelli, canalone, ghiaccio, nord, ramponi, sud-est... Ormai le chiacchiere del dopopranzo hanno trasformato il nostro Boeing 777 in una sezione del CAI, in cui si mescolano e si confondono dialetti ed esperienze.
Il volo è l’EK 97 della Emirates diretto a Dubai. Di lì proseguiremo per Islamabad.
Lo conosco bene questo volo. Ero su questo aereo l’11 settembre 2001 e la notizia dell’attentato alle Twin Towers mi fu data al telefono da Silvia subito dopo il mio arrivo a Dubai, dove sarei rimasto due giorni, prima di ripartire per Melbourne. Sento ancora viva l’angoscia che segnò tutto quel viaggio e quel periodo.
Ricordo bene la rabbia di non riuscire a trovare un televisore acceso in qualche locale, come se quanto stava succedendo a New York non riguardasse affatto quel pezzetto di mondo in cui mi trovavo. Ricordo bene la corsa in taxi per raggiungere la mia camera in albergo e il gelo desolante che mi prese non appena dal televisore cominciarono ad arrivarmi, prima ancora del commento dei giornalisti della CNN, le immagini della tragedia, quelle immagini.
Rimasi davanti al televisore tutta la notte, incapace di articolare qualsiasi pensiero, di pormi qualsiasi domanda che non fosse un ininterrotto, desolante perché?


Yes, ’n’ how many deaths will it take till he knows
That too many people have died?

11 giugno. Islamabad

Il cambio del volo a Dubai è sottolineato da una sorta di radicalizzazione della composizione antropologica dei viaggiatori. Da Milano a Dubai, oltre agli alpinisti italiani, c’era la solita fauna aviotrasportata (leggi viaggiatore internazionale), straniata e fortemente omogeneizzata, con qualche tocco d’Oriente qua e là in qualche abito.
Ora la componente alpinistica si è molto rafforzata con gruppi provenienti da diversi altri Paesi, quasi tutti europei, e quella “laica” è diventata un piccolo subcontinente esclusivamente orientale: molti bambini, donne tutte velate, molte col burqa nero integrale.
I cambi di fuso orario accorciano di molto una notte passata senza poter dormire, a causa delle allegre ciacole degli Scoiattoli e, soprattutto, dell’eccitazione che sembra aver preso tutti.
Il nostro aereo si posa pesantemente sulla pista di Islamabad. Il recupero dei bagagli, ma più ancora il controllo dei passaporti, è snervante. L’impatto con l’interpretazione orientale della funzione-tempo è un po’ duro.
La capitale pakistana ci accoglie con un abbraccio caldo e asfissiante, non soltanto per la temperatura (alle sette di mattina è già oltre i 30°C), ma anche per quel mix micidiale di umidità, smog, gas di scarico, clacson, marmitte sfondate e traffico regolato da una logica tutta interna e assolutamente indecifrabile, che rende inconfondibile la circolazione in molti Paesi asiatici.
Incontriamo le due guide pakistane che ci condurranno al campo-base del K2. Naturalmente sono guide alpine. Si chiamano Iman e Arman. Hanno entrambi un sorriso simpatico e intelligente. Parlano un buon inglese. Arman anche un altrettanto buon francese. La prima cosa che mi colpisce di loro è la pelle scura naturale che, addosso a guide alpine, stride con lo stereotipo del ragazzone-alto-e-biondo al quale siamo abituati.
Non altissimi, ma entrambi biondo-castani e anche loro simpatici, sono le due guide alpine italiane che hanno volato con noi e che dirigeranno la spedizione. Sono Helmut Kritzinger da Bolzano e Marco Zaninetti da Alagna.
La mattinata si consuma e si conclude al Ministero per il Turismo dove le spedizioni dirette al K2 sono tenute a presentarsi al completo per il briefing rituale e per la consegna dei permessi, dal momento che il ghiacciaio del Baltoro, che bisogna risalire per tutta la sua lunghezza, è una restricted zone, in quanto area di operazione dell’esercito pakistano che, insieme a quello indiano, tiene ancora in vita una delle guerre più assurde, combattuta, fino a quote di 6000 metri, per il controllo di una regione, il Kashmir, che detesta sia gli uni che gli altri.

Yes, ’n’ how many years can some people exist
Before they’re allowed to be free?

Ci rendiamo presto conto che tutto ciò che hanno da dirci le autorità pakistane consiste nell’invito fatto anche un po’ sciattamente, a non sporcare la montagna. Detto a noi italiani che abbiamo contribuito in modo determinante alla ripulitura del K2 dalle tonnellate di rifiuti lasciati dalle spedizioni che si sono susseguite per decenni, l’invito suona francamente alquanto comico.
Il ministero si trova in uno dei quartieri “eleganti” del centro della capitale. Naturalmente il concetto di eleganza è relativo al contesto. L’edificio è un casermone anonimo che all’interno, per via dell’aria condizionata e dell’arredamento, assume i connotati di una qualsiasi sede del potere, diventando, almeno ai miei occhi, “normale”.
All’uscita, invece di risalire sui minibus, ci dirigiamo verso un piccolo bazar, che è proprio dietro il palazzo, per fare acquisti. Appena svoltato l’angolo, addio “normalità”. Ci troviamo di fronte un cantiere edile in piena attività, che, più che un luogo di lavoro, è una bolgia infernale. Le attrezzature “meccaniche” sono ottocentesche, le condizioni di lavoro subumane, le dotazioni di sicurezza semplicemente inesistenti, le tecniche di costruzione rudimentali.

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