Ecco la mia eredità (2)

Gaudenzio

Gaudenzio aveva trentasei anni quando io ne avevo appena la metà; originario del mio paese, risiedeva però a Perugia da molto tempo; faceva il sarto e confezionò abiti e cappotti agli uomini più facoltosi della città. Per riuscire a farmene fare uno dovetti pregarlo a mani giunte. Era un vitellone incallito e, in un certo senso, lo rimase per tutta avita. Aveva avuto una fidanzata quando era poco più che ventenne, ma un male incurabile se la portò via rapidamente. Fu forse quella l’unica donna che amò davvero, nonostante in seguito ne ebbe parecchie. Si sposò una volta con una biondina dai volto delicato e dal corpo aggraziato che appariva un po’ fragile, e si separò quando ancora non vigeva il divorzio; fu la Sacra Rota a sancire quell’atto, perché risultò che il matrimonio non era stato consumato; ma di quale impedimento si trattasse non l’ho mai saputo, né mi interessava. Sì risposò, infine, a oltre cinquantacinque anni, e questo secondo matrimonio durò fino alla sua morte, avvenuta quand’era settantenne. Gaudenzio si mescolava volentieri con noi giovani e si comportava, come ho già detto, da vitellone. Era amante del ballo e passammo varie notti insieme ad altri amici nei locali più in vista, specialmente a Carnevale.
Una volta, frequentavo la quarta liceo, mi rivolsi a lui perché si spacciasse per mio zio e mi accompagnasse dal preside, che mi aveva sospeso per alcuni giorni con l’ingiunzione di tornare a scuola accompagnato da un familiare. Ci pensò su alcuni secondi, poi accettò. Indossò la giacca e ci avviammo a piedi. La scuola distava non più di mezzo chilometro. Ricordo che, come di consueto, era elegantissimo; per la sua accuratezza nel vestire gli avevano appioppato il soprannome di “Fico”, qualifica che al giorno d’oggi è diventata di uso comune presso i giovani. Avrei fatto il fanfarone con un simile zio!
Arrivati al cospetto del preside questi si lamentò con lui, dicendogli che, nonostante avessi le qualità per bene figurare, ero un lavativo, e troppo contestatore, fino a costringerlo ad appiopparmi quella punizione per aver abbandonato l’aula sbattendo la porta, dopo l’ennesimo diverbio con il professore di filosofia... Qui accadde l’imprevisto: Gaudenzio, rivolgendosi a me, cominciò a rimproverarmi in maniera accalorata, mettendo in piazza i sacrifici dei miei genitori e in particolare della sua povera sorella che si ammazzava di fatiche (sarebbe stata mia madre), e infine disse che era uno scandalo avere quello scarso profitto quando alle medie inferiori parevo destinato a prevalere su tutti ecc, ecc.
Fingendomi intimorito io pensavo: “Senti, senti, questo figlio di puttana come recita bene la parte”. A questo punto mi arrivò una sberla sonora in pieno viso, alla quale, sadicamente, lo zio adottivo sapeva benissimo che non avrei potuto reagire. Poggiando la mano sulla parte offesa, dissi soltanto: “Ma... zio!”. Il preside si premurò di intervenire, preoccupato da quella reazione; avrei potuto sfidare chiunque a fargli credere che quello era un falso zio.
Appena uscimmo dall’ufficio del preside, presi a inseguire Gaudenzio lungo lo scalone che immetteva nel chiostro, di antica e squisita fattura. Il bidello rimase a bocca aperta nel vedere quella scena. Alla fine dovetti rientrare a scuola meditando una tremenda vendetta. Naturalmente, tutto finì li, però Gaudenzio, da quando la cosa fu risaputa, venne bollato col nuovo soprannome di “Zio”. Per un po’ di tempo gli tenni il muso perché ancora mi fischiavano le orecchie per la sberla, ma alla fine arrivò la riappacificazione. Eravamo a Carnevale. Un sabato pomeriggio l’amico Violino mi presentò al bar un signore anziano, oltre i sessanta, che parlava con uno strano accento italoamericano. Lo chiamavano mister Walter. Guidava una macchina imponente che si era portato, via mare, dagli States. Aveva fatto fortuna li, ed era tornato in Italia, dove era nato, per rivedere i luoghi della sua prima infanzia e i parenti, e per spassarsela un po’. Combinammo un gruppetto dei più intimi, sei in tutto compreso lui, e insieme partimmo alla ventura. L’obiettivo era di andare a scovare un posto dove si ballava, anche di pomeriggio. Alla fine, dopo aver gironzolato per oltre un’ora, finimmo a Collepepe, un piccolo centro in collina, distante dal nostro paese una trentina di chilometri. Lì c’era una balera in funzione. Una volta entrati ci rendemmo conto che si trattava di un modesto locale addobbato alla meglio, dove il denso fumo delle sigarette, col suo acre odore che pizzicava la gola, non riusciva a nascondere quello assai più sgradevole di tanti corpi sudaticci che si contorcevano estasiati nel sacro rito di Tersicore, il quale, se fosse stato presente se ne sarebbe andato via inorridito da quella indegna interpretazione. Mister Walter per fortuna non era uno schizzinoso, forse abituato a quella promiscuità perché aveva lavorato da giovane, per molti anni, in una miniera di carbone. E un po’ per ostentazione, un po’ perché non gli garbava di fare la fila per gli scontrini, quando desiderò qualcosa da bere volle comprare tutte le provviste del bar. Non sì trattava in realtà di un grande assortimento, né per quantità, né per qualità; ma certo nessuno dei presenti avrebbe potuto concedersi il lusso di avanzare ai gestori una simile proposta. Mi pregò di domandare il costo, e iniziammo a contrattare col capoccia solo dopo averlo convinto che facevamo sul serio, Alla fine mister Walter tirò fuori dal portafoglio gonfio la somma convenuta, dicendo al proprietario: “Go away”. Ci sostituimmo, io e un paio di amici, alle ragazze del bar, e fu una pacchia per tutti. Da quel momento in poi si consumava a sbafo.
Comparve in quel mentre Gaudenzio con una sua amica, e, nel vedermi sbracciare al bar intento a elargire gratis quel buffet campagnolo, mi chiese; “Nipote, ma che c’è, è vinto a la lotteria?”. “No - gli feci ridendo - stasera ci avemo lo zio d’America che paga tutto”. Allora brindammo all’amicizia che rifece capolino in quella circostanza allegra, dopo una pausa che era durata fin troppo.

Enzo Belia

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