Selva dei Pini

Il Cimone (1961) di Marcello Marcellini

In quella mattina di fine giugno un leggero vento muoveva appena le chiome dei pini e un buon odore di resina si diffondeva nell'aria, quando Marco, assieme agli altri studenti, uscì dal sanatorio durante l'ora di permesso. Una volta fuori si fermò per un attimo sul piazzale per salutare Bruna che si era affacciata alla veranda, e poi si diresse come al solito alla locanda di Checco. Era quasi arrivato al vialetto alberato che sbucava sulla statale dell'Abetone Brennero, quando sentì qualcuno che lo chiamava ad alta voce. "Ehi, Marco, aspettami, ti devo parlare." Era Daniele, lo stava rincorrendo con quei pantaloni così larghi che sventolavano come se si dovessero staccare dalle gambe magre. Aveva un'espressione seria; era diventato serio dopo che si era innamorato di Renata, una studentessa di Lettere arrivata da un paio di mesi a Selva dei Pini. Lei era bella e lo sapeva. Aveva sempre intorno un nugolo di ragazzi; quelli soliti che giravano per primi attorno ai nuovi arrivi di sesso femminile, e si comportavano come, quegli insetti che per un po' ti ronzano sulla faccia non appena si entra in un bosco, e poi inspiegabilmente ti lasciano in cerca di altre prede. Anche Daniele le stava dietro, ma in un modo diverso. Lui cercava di avvicinarla nei rari momenti in cui lei se ne stava da sola, come quando si appartava con il suo cavalletto da pittore, e poi, con la sua espressione buffa e i suoi modi impacciati, le faceva discorsi seri, mentre gli altri si sforzavano di farla ridere. Non ci volle molto per capire che si era preso una cotta, anche perché dopo l'arrivo di Renata non scherzava più e, quel che è peggio, non accettava scherzi da nessuno. Non giocava neanche più a carte con gli amici. Si limitava a starsene seduto vicino a un tavolo da gioco e a seguire con gli occhi il movimento delle carte, ma si capiva bene che stava pensando ad altro. A Selva dei Pini era difficile nascondere certe cose. E forse era un bene, perché se uno se la prendeva troppo calda ci pensavano gli amici con le loro battute e i loro scherzi a fargli rimettere i piedi in terra. Ma con Daniele non era semplice. Lui evitava persino di parlare con gli altri. Un giorno, in un raro momento di abbandono, riferì al suo compagno di stanza che Renata lo esasperava, e così tutti seppero che lei gli concedeva poco e lo teneva in pugno.

"Senti, Marco" disse con affanno mentre lo raggiungeva "sei sempre intenzionato ad andare al Cimone a piedi?".

Marco lo guardò un po' sorpreso. Una volta in sala da pranzo aveva manifestato l'intenzione di andare a piedi al Cimone parten­do dal sanatorio, ma la sua idea era stata accolta come una spacco­nata, e così non ne aveva più parlato con nessuno. Non è da Daniele - pensò - con la cotta che lo divora, interessarsi di montagne e di camminate a piedi.

"Come mai ora ti interessa il Cimone?" gli domandò Marco con un tono volutamente canzonatorio. Daniele non rispose, e con la testa bassa continuò per un po' a camminargli a fianco senza parlare.

"Beh, ecco... è qualche giorno che ci sto pensando" disse Daniele rompendo improvvisamente il silenzio.

"Pensando a cosa?"

"Ad andare lassù."

"Sul serio? Ma hai un'idea di cosa significhi andare a piedi fino al Cimone?" gli chiese Marco fermandosi e guardandolo in viso. "Io a volte mi sveglio e me ne sto con gli occhi aperti a guardarlo fino a quando le prime luci dell'alba ne illuminano la vetta. Nel frattempo penso alle mulattiere, a come attraversare lo Scoltenna, a quante ore occorrano per scendere a fondovalle e poi risalire il costone della montagna e arrivare lassù. E penso anche che lungo l'arrampicata potrei sentirmi male, e restare sotto qualche faggio senza che nessuno venga a darti una mano."

"Però non hai mai abbandonato l'idea di andarci" disse Daniele.

"No."

"Quante ore credi che ci si impieghino per arrivarci?"

"Checco dice che ce ne vogliono almeno dodici. Ma lui non c'è mai andato, e non conosce neanche qualcun altro che da qui ci sia andato."

"E dove hai pensato di passare la notte?" domandò Daniele.

"Lassù in cima, mi porterei un sacco a pelo" rispose Marco che, senza rendersene conto, si stava appassionando al discorso; finalmente poteva parlare con qualcuno che sembrava interessato al suo progetto. "Mi occorrerebbero due giorni di permesso ma questo non sarebbe un problema, ormai sto decisamente meglio e il dottor Marchi non mi negherebbe un permesso di qualche giorno, che richiederei per... diciamo motivi di studio."

"A me sembra che si possa fare" disse Daniele. "In due sarebbe ancora meglio, non credi?"

"Certo che sarebbe meglio, il problema è che arrivare fin lassù non è impresa da poco, e tu... con quel fisico mingherlino non mi sembri molto adatto."

"Dici così perché non mi conosci" obiettò Daniele raddrizzando le spalle in un gesto di sfida e ricacciando indietro con la mano un ciuffo di capelli ribelli che gli ricadevano continuamente sulla fronte. "Ormai sto bene anch'io, e prima di venire a Selva dei Pini andavo spesso con gli amici a fare delle escursioni sulle Alpi Apuane."

"Già, ma dopo ti sei ammalato di tbc."

"Se è per questo ti sei ammalato anche tu."

"È vero, ma io vado spesso nel bosco a fare delle lunghe passeg­giate, mentre tu non ti muovi mai."

"Mettimi alla prova e ti faccio vedere io se mi so muovere."

Daniele aveva pronunciato queste parole con una determinazio­ne che lasciò stupito Marco. Intanto i due ragazzi, inconsapevol­mente, si erano diretti lungo un tratto della statale da dove si vedeva assai bene il Cimone, che si ergeva spoglio e possente sopra i vasti pianori posti alla base della vetta. Se ne stettero per qualche attimo in silenzio a guardare la montagna.

"Che ci sarà dall'altra parte?" disse Marco.

"Dall'altra parte del Cimone?" chiese Daniele.

"Sì, dall'altra parte del Cimone."

"Basta prendere una carta geografica."

"Già, ma non è la stessa cosa che guardare dall'altra parte una volta che si è lassù. Una carta geografica non ti fa vedere i colori, i boschi, i ruscelli, la curva dei monti e la vastità dell'orizzonte come appaiono dalla cima di una montagna."

"A me piacerebbe tanto vedere Selva dei Pini dal Cimone" disse Daniele.

"Sarebbe bello" disse Marco. "Ci potremmo portare un cannoc­chiale, così la vedremmo meglio."

"Allora che ne dici, ci andiamo o no?"

"Ci andiamo, porca miseria, ci andiamo, alla faccia di tutti i bacilli di Koch!" disse Marco dando una pacca sulle spalle di Daniele che lo fece traballare.

Quello stesso pomeriggio ne parlò a Bruna dalla finestra dei gabinetti, mentre lei stava rientrando nel sanatorio dopo l'ora di libera uscita. Quello era l'unico modo per parlare con Bruna. Lei era ricoverata al terzo piano, assieme alle altre ragazze assistite dalla Previdenza Sociale che occupavano i piani alti del sanatorio, mentre gli studenti, che erano in gran parte maschi, occupavano il piano terreno e il primo piano, ed erano assistiti dalle università tramite il S.U.I., il Sanatorio Universitario Italiano. A questa diversità fra enti di assistenza corrispondeva una diversa regola­mentazione dell'orario giornaliero di libera uscita, al chiaro scopo di evitare contatti fra gli studenti e le numerose ragazze dei piani superiori. La promiscuità fra sessi era invece consentita fra studen­ti e studentesse del piano terreno e del primo piano; come se lì a Selva dei Pini al mondo dello studio e della cultura, collocato nei piani nobili, fosse concesso di godere di una specie di extraterrito­rialità da parte della direzione che vi tollerava certe forme di libertà, fino a quando, tuttavia, queste libertà non travalicavano quei confini. Pertanto, fra le altre cose, era assolutamente vietato agli studenti salire le scale oltre il primo piano per incontrare le ragazze dei piani superiori, pena l'espulsione.

Il corpo infermieristico era costituito da suore appartenenti

all'ordine delle Serve di Gesù, le quali con solerzia, e, qualcuna, anche con un certo accanimento, controllavano attentamente che il divieto sancito dalla direzione venisse scrupolosamente osservato.

Ma i contatti si verificavano ugualmente. Il primo approccio veniva di solito stabilito dai gabinetti del pianterreno, le cui finestre davano nella parte posteriore dell'edificio, vicino alla porta da dove le ragazze uscivano e rientravano nell'ora di libera uscita.

Bruna sapeva del desiderio di Marco di andare al Cimone a piedi e non restò sorpresa dalla notizia. "Quando credi di andare?" gli chiese eccitata guardandosi intorno. "Hai pensato bene a tutto? Guarda che io voglio che tu torni sano e salvo."

"Andrà tutto bene, vedrai, sarà una bella passeggiata e ti pen­serò sempre."

"Stabiliamo un'ora per pensarci" disse Bruna. "Anzi due ore, alle dieci e a mezzogiorno; mentre starò a sdraio sulla veranda, alle dieci e a mezzogiorno ti penserò e ti lancerò un bacio che arriverà fino al Cimone."

"D'accordo, ma se non arriverò lassù il tuo bacio andrà a vuoto."

"Allora te ne darò uno prima e tu lo porterai con te."

"Dammelo ora" disse Marco cercando di afferrarle la mano per tirare la ragazza verso la finestra.

Lei si divincolò e ridendo corse verso la porta.

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