Una minestra di quinoa

Diario di un viaggio in Bolivia di Mimmo Scipioni
Arrivo a La Paz

Tutto è iniziato nel 1979... O forse tanti anni prima. Quell’anno un aereo mi portò in Nepal, per un trekking al campo base dell’Everest. Ma i viaggi per il mondo non cominciano mai il giorno in cui prendi un qualunque mezzo per spostarti, iniziano, come quelli interiori molto tempo prima, quando si comincia a cercare dentro di sé il perché di tanta piacevole inquietudine che spinge a muoversi prima intorno ai luoghi familiari e poi via via, in un vortice che sembra senza fine, sempre più lontano. Adesso, tanti anni dopo, sono qui in Bolivia nel mese di gennaio.
È la stagione delle piogge e non è un bel mese per andare in giro in Bolivia, ma un po’ perché avevo voglia di partire, un po’ perché era saltata una piccola spedizione in Perù, ho ripiegato sulla Bolivia. Non ci ho pensato molto, in fondo il bagaglio è lo stesso, ho solo dovuto comprare qualche altra carta geografica e cambiare il biglietto aereo.
Così la mattina del 17 gennaio sono in macchina accompagnato da Silvia, mia figlia, in coda sull’autostrada per l’aeroporto. Un breve scalo a Madrid e poi il grande balzo sopra l’oceano Atlantico. L’aereo non è troppo pieno, così posso dormire comodo e poi utilizzare il tempo per completare l’itinerario da percorrere una volta arrivato in Bolivia. L’idea principale è quella di ripercorrere le vecchie strade che gli Inca hanno tracciato e aperto lungo le Ande. Dalle notizie che ho i sentieri lastricati sono ancora in buono stato e le difficoltà non mi sembrano eccessive.
A Miami l’attesa non è troppo lunga, devo attendere solo cinque ore. Passeggiando per lo scalo, mi torna in mente la spedizione dell’anno scorso in Honduras, quando a causa degli incendi nelle foreste honduregne abbiamo perso l’aereo, e la nostra sosta in aeroporto è durata circa venti ore. Lo scalo di Miami ormai lo conosco proprio bene! Al controllo passaporti un’impiegata di La Paz molto cortese, mi spiega parecchie cose della capitale boliviana, mi dà qualche indirizzo e il numero telefonico di sua sorella da utilizzare in caso di emergenza. Rimane molto stupita nel sapere che faccio questi giri in montagna da solo, e in più in questa stagione. Comincio a pensare di aver sottovalutato il fattore pioggia.
Comunque, verso le 7 di mattina, arrivo all’aeroporto di La Paz dopo aver sorvolato un grandissimo e lunghissimo altopiano messo a coltura, che in seguito ho scoperto essere il più grande altopiano andino coltivato. Dal finestrino, oltre le coltivazione, vedo torrenti che solcano la terra in ogni direzione, e ognuno di essi trasporta tantissimi detriti. In lontananza c’è una catena montuosa coperta di neve, le Ande.
A differenza di altri Paesi dell’America latina che ho visitato, rimango colpito dal fatto che qui non c’è la terra rossa che attira sempre il mio sguardo per il suo colore intenso e caldo. La discesa è vertiginosa, in quanto la rarefazione dell’aria costringe i piloti a tenere una velocità molto alta e quindi a effettuare una frenata altrettanto brusca. L’aeroporto si trova molto più in alto della città, a 4100 metri di altezza, non a caso si chiama El Alto, e devo scendere attraverso una serie di piccole valli, fino a 3700 metri per raggiungere La Paz. Costruita su terreni a dir poco instabili, la città occupa una valle attraversata in tutte le direzioni da una serie di torrenti e il conglomerato che la forma è in continuo movimento.
Come dicevo, La Paz è edificata dentro una conca stretta e scoscesa con continui saliscendi. È nata a poco a poco, con l’arrivo dei primi cercatori d’oro. Infatti il fiume principale che attraversa la città era ricco d’oro, e appena si è sparsa la notizia che alcuni cercatori avevano trovato il prezioso metallo, frotte di uomini si sono riversati nella valle.
Adesso quel fiume è stato trasformato in una fogna dove scorrono, oltre all’acqua nera, tutti i residui di una grande e disordinata città. Passeggiando per le sue vie si vedono i fianchi delle colline ricoperti di case, la maggior parte in mattoni con qualche colonna di cemento, che poggiano su rocce composte da un misto di ciottoli e terra. Solo a guardarle sento i brividi nella schiena. Il mio zaino è arrivato regolarmente con me! Non sembra cosa da poco data l’importanza che aveva nel mio caso e le varie e sfortunate avventure che spesso affrontano i bagagli; così, con esso stretto sulle spalle, raggiungo il mio piccolo albergo.
L’hotel Illimani, spartano ma pulito e silenzioso, ha al suo interno un piccolo giardino, in cui penso subito di trascorrere alcune ore per mettere a punto il mio viaggio, ha stanze piccole arredate con un letto, un tavolino sufficiente per poter appoggiare un libro e altre poche cose che servono per scrivere. I bagni, in comune con altri ospiti, sono ben tenuti e costantemente curati dall’anziana proprietaria e da suo marito.
Le docce sono una sorpresa: per scaldare l’acqua c’è un filo elettrico direttamente a contatto con essa e, come raccomandano nella guida che illustra il sistema, bisogna stare attenti a non toccare i rubinetti una volta bagnati; l’aspetto è davvero sinistro, i viaggiatori hanno denominato questo tipo di docce sistema Frankestein, ma fortunatamente per il momento non ho bisogno di lavarmi.
Sono le 9 del mattino e decido di uscire per fare un primo giro in città, tanto non credo di riuscire a dormire e poi devo cercare di abituarmi al nuovo fuso orario. Cammino lentamente e senza sforzarmi, ma nonostante questo ho il fiato corto e un po’ di mal di testa; i 3700 metri di quota si fanno sentire. Passare dalla quota molto inferiore dove vivo normalmente a queste altezze, mi lascia un leggero disagio, nonostante io sia abbastanza allenato alle variazioni di altitudine.
Comincia a piovere, una pioggerellina fina e nebbiosa, quella che non ti bagna totalmente ma che pian piano ti porta via il calore e ti fa tremare; va avanti tutta la giornata. Nel mese di gennaio è così tutti i giorni, spero di aver fatto la scelta giusta a venire qui in questo periodo. Decido di visitare il centro della città e arrivo così alla piazza principale che si apre al termine di una via in salita e stretta; le macchine che la percorrono la fanno sembrare ancora più piccola, auto rumorose a causa delle marmitte rotte e del perenne suono dei clacson.
La piazza invece è spaziosa, e ha una zona pedonale al centro. Mi colpisce subito un grande palazzo in stile ottocentesco con le sue bandiere, è il palazzo del Presidente. Attaccato a questo sorge la Cattedrale, costruita un po’ più in alto del piano stradale. Con una scalinata si accede all’ingresso della chiesa. Chissà se anche qui il potere della Chiesa è espresso in questo modo. Sul lato destro della piazza c’è il palazzo del Governo, anche questo con le sue bandiere e i suoi soldati. E poi negozi e ristoranti. La parte pedonale è divisa in due zone collegate da una scalinata. Quella bassa è davanti alla casa del Presidente, arredata con panchine e affollata di gente e venditori ambulanti. Dall’altra parte ci sono una serie di alberi, una fontana e poi la strada.
Sedute sui gradini noto due donne in costume boliviano, rimango stupito nel vederle, perché pensavo che quel modo di vestire fosse quasi scomparso, o si usasse solo nelle campagne. Nulla di più sbagliato, come avrei appurato. Leggo che tra sottovesti e gonne, le donne ne portano sette. Sotto a queste poi indossano i mutandoni di lana e i calzettoni. Il costume tipico è completato da due camicie, un poncho e l’immancabile bombetta. Questo nel periodo invernale. Presumo che nella stagione calda si tolgano qualcosa. Credo che gli uomini qui siano molto pazienti. Questo abbigliamento è stato imposto alle popolazioni andine da un viceré spagnolo per dare, secondo lui, decoro alle donne.

Commenti

Etichette

Mostra di più