Sciocchezzario

Una delle tecniche infatti più caparbiamente perseguite da Svevo è quella della ripresa e della correzione di una parola che viene prima lasciata cadere, quasi distrattamente, e poi viene in qualche modo recuperata con un nuovo significato. L'autore è costretto a emendare quanto uno dei suoi personaggi ha appena detto, perché i protagonisti sveviani mentono tutti, mentono disperatamente, innanzitutto a se stessi.
Svevo, che da giovane si era formato sulle pagine di Schopenhauer, non smette mai di pensare che la vita umana è fatta di una volontà, fondamentalmente egoistica, e di una rappresentazione che tende invece al sogno e all'idealismo, cioè all'inganno, anche di se stessi (innanzitutto, forse, di se stessi). Niente di meglio, allora, che svelare questa universale menzogna, questa universale farsa, riformulando le riflessioni dei propri personaggi e di Emilio in particolare, in quanto il più lòico e il più votato all'autoanalisi.

Fin dalla prima, dalla primissima pagina del romanzo, Svevo ci fa capire che non gliene lascerà passare una sola. È stato detto spesso che lo Svevo di Senilità è un narratore flaubertiano, per esempio per l'uso costante che fa del discorso indiretto libero e per la ricerca di una superiore oggettività. Tuttavia penso sia soprattutto in un altro senso che si possa parlare di un'influenza determinante dello scrittore francese. Flaubert era ossessionato dalla bétise degli uomini, vale a dire dalla stupidità universale che riguarda tutti noi. Questa tendenza al “non-pensiero” dei luoghi comuni, questo è il modo in cui Flaubert definisce la bétise, ci affligge tutti ed è allo stesso tempo una malattia essenzialmente linguistica. Noi uomini crediamo di pensare, crediamo di avere delle idee e invece non facciamo che attingere a un unico “sciocchezzario”, a un catalogo di pseudoragionamenti altrui che assomiglia a una sorta di gigantesca discarica dell'intelligenza.

La parola, che è quanto di più proprio dell'uomo, come animale, non è dunque, nella stragrande maggioranza dei casi, per Flaubert come per Svevo, altro che flatus vocis, puro suono senza alcun contenuto di pensiero. Più che parlare noi esseri umani siamo dunque “parlati” da una lingua, che ci toglie qualsiasi possibilità di libera espressione nel momento stesso in cui sembrerebbe offrirci la possibilità di entrare in contatto con gli altri e di manifestare il nostro io più profondo. Per tutto il romanzo Svevo non fa precisamente che dubitare che questo io esista, se non forse nella forma un poco sordida dell'amor proprio e della pura volontà di affermazione darwiniana sugli altri. […] Senilità è innanzitutto una implacabile analisi del linguaggio umano come grande malattia della parola, come grande metastasi

— Gabriele Pedullà

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