Se piangi hai perso

Come per tanti di questi cacciatori di speranza, anche per Rinda l’Italia doveva essere la tappa provvisoria di un sogno verso il nord. Invece presto diventa permanente: mentre il padre trova impiego come operatore ecologico in metropolitana, Rinda viene mandata in una comunità in via Nino Bixio: «Si chiamava Fanciullezza abbandonata: che allegria!». Lì, tra suore cocciute e preghiere forzate, rimarrà dai 6 ai 10 anni. «Vedevo mio padre solo la domenica. Ma non riuscivo a parlarci: le suore mi avevano obbligato a disimparare l’arabo».A scuola andava meglio? «Le bambine non volevano giocare con me perché ero nera. Io cercavo di comprare il loro amore: ogni mattina portavo in classe un vassoio di focaccine. Risultati scarsini, in amicizia e in pagella. Alle suore non fregava granché che studiassimo, così non mi è mai venuta voglia di impegnarmi. Strano, vero? Un altro, al posto mio, si sarebbe fatto in quattro per dimostrare il proprio valore. Io invece ho lavorato duramente per diventare una bella persona. Ho sempre pensato: se vedono che siamo buoni capiscono che non c’è bisogno di tutto questo odio». La tattica non sempre ha funzionato visto che si è sentita dire dal preside di un liceo: «In fin dei conti, sei una negra e devi accettarlo», e da un professore di inglese: «Se non capisci, perché non te ne torni nelle piantagioni di cotone?». «Questa è stata la frase che più ha fatto infuriare Renata: voleva denunciarlo, chiamare il Corriere della Sera. L’ho fermata: a 15 anni desideri solo scomparire».

— Se piangi hai perso (di Nina Verdelli), storia di Rinda Nigusse

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