Entropia d'amore

di Emanuela Antonini

Correva l’anno Milletrecentottantuno, quando io Ginevra Deluise, nobile dama di un piccolo borgo toscano, venni condannata al rogo per stregoneria, in quanto predicavo l’amore, non consono ai dettami della morale, per il mio cavaliere, il conte Victor Bernard.

Questa è la storia d’amore tra la nobildonna e il suo cavaliere, scritta di mio pugno, a dimostrazione che niente è impossibile, soprattutto in amore.

Durante i/processo mi chiesero...

Autunno 1989

In un giorno grigio e piovoso, Greta Deblais, proprietaria di un azienda zoo-agricola, mentre osservava la campagna circostante la casa natale, una dimora de quindicesimo secolo, situata nella sua tenuta sui colli toscani, avvertì all’improvviso un’attrazione particolare, e l’impulso di rivolgere lo sguardo verso il ritratto di Ginevra Deluise, che dominava nel salone per maestosità e bellezza.

Quella donna, sua antenata, era vissuta nel Medioevo, e tuttora veniva considerata un simbolo in famiglia, per il coraggio dimostrato nel ribellarsi all’autorità del marito e al conformismo della società di quel tempo, dotata com’era di creatività e di effervescenza intellettuale.

Una donna che, in un mondo ostile alle donne, era riuscita a imporre e a difendere strenuamente la sua visione dell’amore, infrangendo le regole del tempo per affermare a propria libertà.

Ma a Greta, ora, che cosa stava succedendo?

Quel ritratto non era stato sempre lì? Come mai quel giorno ne era attratta come da una forza magnetica?

Volgendo gli occhi verso il quadro, vide la sua ormai nota rassomiglianza con l’antenata, l’unica diversità stava nel colore degli occhi e dei capelli.

Il viso aveva la stessa forma ovale, con lineamenti regolari e delicati in contrasto con la bocca carnosa, giudicata probabilmente a quei tempi peccaminosa, mentre oggi sarebbe solamente sensuale. Ginevra era raffigurata con i capelli di un colore biondo irlandese, in parte raccolti sulla nuca, e in parte, a boccoli, lasciati sciolti lungo il collo. Due occhi acqua marina risplendevano sulla carnagione rosata, simile a porcellana.

Greta, al passo coi tempi, per la sua capigliatura aveva scelto un taglio corto e sbarazzino che le metteva in risalto i lineamenti del viso. I suoi capelli erano castani, e come la sua ava aveva una carnagione chiara, ma gli occhi si allungavano in un taglio a mandorla e brillavano di un’intensa luce verde.

Osservando il ritratto, ripensò a quando, bambina, suo padre le raccontava la storia di Ginevra come se fosse una bella favola, omettendone volutamente alcuni particolari data la sua tenera età.

Ginevra era vissuta nel quattordicesimo secolo, quando la Santa Inquisizione esercitava un potere di vita e di morte, e la donna non aveva libertà alcuna e veniva facilmente considerata solo come procreatrice: qualsiasi sua originalità fuori dagli schemi veniva ritenuta opera del demonio.

In un contesto come quello, se una sciagurata avesse avuto la malaugurata idea di non rispettare i ruoli che le imponeva la società, poteva anche venir giudicata una strega e condannata al rogo.

Greta, pensando alla situazione femminile del proprio tempo, si trovò a riflettere sul fatto che, sebbene nei secoli battaglie per l’emancipazione femminile fossero state fatte, ancora le donne non avevano raggiunto una vera parità di diritti con gli uomini, soprattutto in fatto di adulterio, sebbene questo fosse stato abolito come reato nel 1969.

Cresciuta idealizzando l’immagine della sua ava, la vedeva come una donna coraggiosa e pronta al sacrificio, disposta a farsi bruciare viva pur di difendere i suoi principi.

Ginevra stessa aveva dato testimonianza della propria vita di donna in quel periodo ostile scrivendo un diario, nel quale dava particolare risalto all’amore nato tra lei e un cavaliere.

Nel tempo, quel diario era stato tramandato e più volte trascritto, fino a quando, alla fine dell’Ottocento, venne rilegato come un vero libro. Ora il racconto veniva conservato nella biblioteca di famiglia, come testimonianza che “niente è impossibile, soprattutto in amore”. Spinta da un’irresistibile curiosità di conoscere la verità su come si erano svolti i fatti, Greta decise che in quella giornata autunnale e grigia, avrebbe passato il pomeriggio in compagnia di Ginevra. Così distolse lo sguardo dal ritratto, e, presa da una specie di smania, con passo svelto e deciso si diresse verso la biblioteca, situata nella torre dell’antica dimora.

La stanza era ampia e impreziosita da mobili stile Luigi XVI, tra i quali padroneggiava una grande scrivania ricca di intarsi. Le pareti, in parte affrescate, ospitavano librerie in noce che arrivavano fino al soffitto, realizzato a cassettoni lignei a forma quadrangolare, intagliati e finemente decorati in oro, così da rendere l’ambiente accogliente e confortevole.

Gli scaffali erano colmi di libri, disposti in modo ordinato e preciso secondo argomento e periodo storico. L’unica parete libera della stanza era occupata da imponenti finestre, adornate con tendaggi di tessuto pesante di un colore rosso vivo.

Entrata nella biblioteca, Greta si diresse verso lo scaffale che conteneva i testi dell’epoca in cui era vissuta l’antenata.

Dopo un’ attenta ricerca, trovò quello che in quel momento considerava il suo tesoro, un piccolo volume, con una copertina in pelle azzurra, sulla quale risaltava una scrittura dorata: Ginevra Deluise.

Soddisfatta di averlo trovato, si mise comoda sul divano, e con una certa smania si immerse nella lettura.

Dopo le prime pagine rimase sconcertata per gli avvenimenti descritti, venendo a scoprire che episodi della vita di quella sua antenata si erano succeduti in modo molto simile ai propri.

Pura fatalità oppure lei assomigliava in modo stupefacente a Ginevra?

Chi era Ginevra Deluise?

E Victor Bernard, chi era costui?

Era scritto:

Sfogliando le pagine del libro della mia memoria, riaffiora quel ventidue di novembre dell’anno Milletrecentosettantanove, quando incontrai Victor l’uomo che sarebbe divenuto il mio cavaliere. Alto e di corporatura snella, due piccoli ma vivaci occhi risaltavano sul carnato olivastro del volto allungato, dai lineamenti gentili e ornato da una rada barba che disegnava la linea della mandibola.

Fiero nel portamento ma dai modi garbati, era dotato di una particolare sensibilità ed era pronto a combattere in difesa dei più deboli e bisognosi.

A quest’uomo avevo donato il mio cuore, sfidando le leggi del mio tempo.

Non eravamo entrambi liberi sentimentalmente, ma la nostra passione fu così intensa da farci perdere la ragione.

Sposatami giovane con il conte Egidio de Petris — un matrimonio non di amore, ma combinato dalle nostre famiglie per ragioni economiche e politiche, come imponeva la morale del tempo — la felicità regnò solo per i primi anni, anche grazie all’arrivo dei pargoli, tre maschi e una femmina, voluti per assicurare la discendenza al casato.

Egidio, piccolo di statura, dal viso spigoloso ornato da una corta e ispida barba, aveva uno sguardo gelido e ambiguo. Uomo dotato di coraggio ma di poca sensibilità, più di una volta incappò in seri pericoli, venendo ferito anche in modo grave, ma non desistette e continuò imperterrito nei suoi propositi. La sua fama di condottiero veniva arricchita dalla sua brama di signoreggiare e dalla crudezza che usava verso i nemici, speculatori senza scrupoli e con la sua stessa mania di grandezza.

Nel tempo divenne un ricchissimo signore del posto, ma, assetato di potere, viveva alla ricerca di una sempre maggiore ricchezza; per questo era spinto sempre verso nuove conquiste, confiscando terre e spogliando di tesori e opere d’arte città che capitolavano ai suoi piedi. In tal modo ampliava il suo dominio e impreziosiva il suo casato, attestando la sua magnificenza.

Intanto io, giovane sposa e madre, con lo sposo sempre lontano, mi ritrovavo sempre più insoddisfatta per la vita che ero costretta a condurre, relegata tra le mura del castello, con l’unico impegno di allevare i figli, e come svago la pittura e il ricamo.

Così sentendomi trascurata da mio marito, sempre lontano per bramosia di potere e di ricchezza e incurante della mia sorte, mi ritrovai sola e infelice.

A questo status mulierum mi sono ribellata, e sono riuscita a vincere la battaglia: per i miei tempi sono stata considerata una donna irrispettosa ma audace.

Per questa mia personalità poco sottomessa sono stata giudicata, dai benpensanti miserevoli, preda di qualche sortilegio, essendo riuscita a impormi sia nella direzione della casa che degli affari, in presenza e in assenza di mio marito. Infatti negli anni imparai a curare con padronanza e sicurezza le nostre proprietà, riuscendo a tener testa anche ai più abili contabili.

Un giorno in cui il sole irradiava la campagna circostante il castello, uscii in sella al mio destriero per una passeggiata in quelle terre a me tanto care.

Il territorio leggermente collinoso si stava inasprendo e una fitta boscaglia lo ornava donando al luogo un aspetto allo stesso tempo minaccioso e sublime; incurante del pericolo, mi inoltrai nel bosco.

Percorsi solo un breve tratto di strada, quando il mio destriero, per saltare un ostacolo, mi disarcionò, facendomi cadere a terra e continuando la sua corsa.

Il destino volle che un cavaliere si trovasse nei pressi, e, udendo una voce femminile che ininterrottamente chiamava “Samyr dove sei? Samyr... Samyr vieni dalla tua padrona!”, si dirigesse incuriosito in quella direzione.

Davanti ai suoi occhi trovò una creatura che lo colpì immediatamente per la bellezza. Il cavaliere rimase ammaliato dai lineamenti perfetti e delicati e dallo sguardo che emanava una luce particolare. Inoltre egli pensò quale donna avrebbe avuto l’ardire e il coraggio di inoltrarsi da sola nel bosco, colmo chissà di quali pericoli. Così egli mi confidò in seguito.

Quando i nostri sguardi si incontrarono scoccò la scintilla, e ambedue fummo invasi da una ridda di emozioni.

Fu l’inizio del nostro amore, intenso e travolgente.

Fermato il cavallo, egli scese e mi si avvicinò; poi, porgendomi il braccio per aiutarmi ad alzarmi da terra, domandò: “Madonna, in quale pericolo siete incorsa? Forse siete stata derubata da qualche ladruncolo o predone? Chiedo il permesso di aiutarvi e di presentarmi, sono il conte Bernard, Vìctor Bernard”.

Accettai volentieri la sua offerta e appoggiai delicatamente la mano sul suo braccio, poi, sollevatami, facendo un inchino in segno di gratitudine, risposi: “Vi ringrazio, conte Bernard, per la vostra cortesia; non sono stata depredata da ladrunco, ma solamente disarcionata dal mio destriero mentre stava saltando questo ostacolo. Il mio nome è Ginevra, Ginevra Deluse”.

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