La strumentalizzazione dei corpi e del dolore in politica

Quando c’è di mezzo la morte, o le esperienze traumatiche in generale, la prima lingua che si impone su di noi è il silenzio. Perché ogni parola ci sembra inefficace, ogni suono che abbiamo pronunciato fino a quel momento perde di significato rispetto alla vastità che dobbiamo elaborare. Il dolore può essere un deserto, e attraversarlo significa imparare a camminare diversamente. A pensare e parlare diversamente, mentre si sperimenta la solitudine di chi non potrà mai essere capito fino in fondo, in ciò che prova. Per alcuni questo deserto è così vasto che non sarà mai attraversato per intero, e ciò nonostante si è costretti a vivere lo stesso. Perciò ogni parola o atto politico, in casi del genere, dovrebbero procedere dalla consapevolezza di un'innaturalità di fondo: tacere e restare immobili è impossibile, parlare e agire non restituirà qualcosa che è andato perso per sempre. Invece ci tocca assistere, tirati da più parti, a grida, tifo, slogan lanciati pensando alle metriche che misureranno il successo dell’operazione, insulti e oltraggi, persino l'odiosa negazione. Se proviamo a guardare con distacco tutto ciò, si inizia a vedere una strada lungo la quale è impossibile ogni pacificazione, e l’assenza di conflitto aggressivo è vista come un crimine, una debolezza imperdonabile.


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