Gianni Rodari

Ricostruire la figura di un intellettuale a partire dal suo vissuto politico è un’operazione a cui il tempo ci ha progressivamente disabituati. Eppure di militanza e poetica è fatta gran parte della letteratura italiana del Novecento, da Luciano Bianciardi a Cesare Pavese, da Antonio Gramsci a Beppe Fenoglio, da Italo Calvino a Leone Ginzburg.

In una costellazione ricchissima come questa è raro veder spiccare il nome di Gianni Rodari, che è stato invece tra i più grandi e illuminati intellettuali militanti del secolo scorso, una figura fondamentale del panorama culturale italiano, che didattica e cultura hanno progressivamente spogliato della propria complessità e dei propri connotati eversivi.

Eppure Rodari è stato, per tutta la vita, nientemeno che un rivoluzionario, e riscoprirne il ruolo, rimetterne al centro la poetica contro la crisi del mondo intellettuale e didattico è il focus delle Lezioni di Fantastica di Vanessa Roghi (Laterza), storica e scrittrice toscana, che attraverso questo ricco saggio ripercorre la formazione e la carriera dello scrittore e pedagogista a partire dalle prime esperienze come cronista per «Paese Sera« e«l’Unità», fino alle ultime prestigiose pubblicazioni con Einaudi.

Un periodo lungo sessant’anni, durante il quale Rodari si sarebbe progressivamente emancipato da quell’ambiente politico — il Partito Comunista, a cui sarebbe rimasto iscritto fino alla sua scomparsa, nel 1980 —  che avrebbe pure influenzato gran parte della sua produzione per lungo tempo.

Ed è infatti un libro dichiaratamente politico, quello di Roghi, che tende a riscoprire quell’armonia perduta tra militanza e produzione artistica, e in cui la fantasia si fa metodo, approccio, strumento di lettura non solo per riflettere sulla realtà circostante, sulla scuola e sulla cultura, ma anche per riprogrammarle ex novo. Un libro che racconta il Rodari figlio di un panettiere, il giovane lettore di Marx e Engels, l’uomo schivo che rispetto al mondo brulicante delle riviste e delle redazioni si sarebbe sempre sentito «un intruso, un clandestino, uno che l’ultimo mozzo d’equipaggio avrebbe potuto afferrare per un orecchio e gettare nell’oceano».

Ma è soprattutto la figura del Rodari politicamente impegnato, quella dipinta nelle Lezioni: l’articolista del «Pioniere», di «Avanguardia» e dell’«Ordine Nuovo»; il testimone dei grandi scioperi in Emilia-Romagna, delle lotte nelle fabbriche e dei fermenti sociali del dopoguerra; il Rodari che avrebbe riempito le sue filastrocche di tramvieri e gelatai, con la volontà di dar voce a quella classe operaia che considerava il proprio reale committente nonché la sua più importante interlocutrice.

Coniugare attivismo politico e produzione letteraria, quell’«interdipendenza tra attività culturale e politica valore della resistenza» di cui parlava Franco Fortini, è uno degli argomenti centrali del libro. Non a caso le filastrocche, le storie di Rodari compaiono solo in parte, non tanto per valorizzarne il ruolo pedagogico o la bellezza formale, ma soprattutto per inserirle all’interno di una missione intellettuale  —  anch’essa figlia di un determinato credo politico  —  che mirava a lavorare e riflettere sul ruolo dei bambini come soggetti privilegiati verso cui la sinistra degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta voleva rivolgersi «organicamente […] immettendo nella produzione per l’infanzia la lotta di classe, la realtà sociale, la storia».

È allora un Rodari inedito, quello che emerge dalle Lezioni di Fantastica; o meglio, un Rodari ben più complesso di quello che siamo abituati a frequentare sui banchi di scuola; un intellettuale determinato a raccogliere l’ideale comunista rifiutandone tuttavia le posizioni rigide o poco lungimiranti (famosa la difesa a favore del fumetto scritta poco prima della morte, figlia di una precedente apologia della televisione e dei suoi linguaggi). In questo senso, Rodari è stato un cane sciolto, un infaticabile promotore dell’anticonformismo; un anticonformismo strumento del bambino come soggetto politico e sociale.

In queste Lezioni ricchissime di testimonianze, citazioni e aneddoti — i viaggi in URSS, le lettere a Giulio Einaudi, le feroci prese di posizione contro la scuola che nel decennio ’60-’70 sarebbe stata attraversata da una serie di cruciali riforme  —  Roghi tratteggia un Rodari infaticabile ma soprattutto coraggioso, non solo nella battaglia per il recupero della tradizione  —  attraverso la riscoperta di favole e dialetti sulla scia della lezione gramsciana —, ma anche nella condanna alla discriminazione, al classismo, all’analfabetismo; un Rodari fervente, in lotta a favore di una scuola «moderna, non dogmatica, non intollerante, aperta, in cui i bambini contassero più dei registri, il loro lavoro più dei voti con cui la legge fa obbligo di classificarli, la loro comunità più delle loro piccole competizioni, la loro sincerità più dell’ortografia, la loro libertà più dello schema imposto dall’alto».

E non è un caso che Roghi utilizzi il presente storico per comporre il suo ritratto, quel presente che serve a fissare l’attenzione non soltanto sul qui e ora, ma soprattutto sull’adesso e sempre, affinché la lezione, l’eredità, l’impegno di Rodari restino un esempio su come riconnettere cultura e progettualità politica, un metodo per riscoprirne l’insegnamento innestandolo profondamente nella complessità del presente.

di Gaia Tarini - Fonte: minimaetmoralia.it

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