Prima persona

“La retorica nasce in Sicilia, nelle colonie greche. È un dato non privo di interesse. Dei Greci conosciamo le virtù, un po’ meno i difetti. “Graeca fides”, la affidabilità dei Greci, era una espressione che i Romani non potevano pronunciare senza una inflessione ironica, come “Punica fides”. Assomiglia alla accezione con cui i popoli nordici usano l'aggettivo “italiano” e non stanno parlando del Rinascimento. Il “credito greco” per Plauto (“Asinaria”, 199) era quello che mai si sarebbe potuto riscuotere se non alle calende greche, che appunto non esistevano. Astuzia, menzogna e tradimento erano praticati con una destrezza intensificata dall'orgoglio. Sullo sfondo di questo inquinamento ambientale si colloca l'aneddoto del siracusano Corace, che insegna a Tisia la tecnica del parlare efficace — questo il significato originario della parola “retorica” —, così da persuadere l'ascoltatore. E Tisia, al termine delle lezioni, si rifiuta di pagarlo. La sua argomentazione è questa: se mi hai insegnato bene la retorica, devo convincerti che non ti devo niente. E non ti pago. Se invece non riesco a convincerti, vuol dire che non mi hai insegnato bene la retorica. E non ti pago. In tutti e due i casi non ti pago. La disputa sembrerebbe conclusa, ma l'aneddoto ha un compimento ad anello. Corace replica: se riesci a convincermi che non mi devi niente, vuol dire che ti ho insegnato bene la retorica. E mi paghi. Se non riesci a convincermi, mi paghi. In tutti e due i casi mi paghi. Non sappiamo quando ha termine la disputa. O meglio, sappiamo che non ha termine. Corace e Tisia disputano in eterno, l'uno opponendo all'altro gli stessi argomenti, simmetrici e capovolti. È questo il senso immortale dell'aneddoto, che ci svela aspetti essenziali della retorica. Uno è che l'arte del dire può essere tanto efficace da inibire l'emergere della verità e da imporre un risultato di parità ai due contendenti. Una sorta di terrorismo intellettuale li costringe alla paralisi, come le armi moderne nella strategia del terrore. L'altro è ancora più sinistro. Nessuno vince, ma uno ha ragione e tutti e due lo sanno. È il maestro che ha ragione. La retorica — non essendo la saggezza, ma una tecnica che offre vantaggi a chi la pratica — non può che comportare un compenso per chi la insegna. I sofisti, che la divulgano in Grecia, sono i primi maestri a esigere remunerazioni elevate. Aristotele racconta nella “Retorica” (III, 14) che Prodico di Ceo, quando vedeva il pubblico distratto, gridava: «Eccovi il punto da cinquanta dracme!» e otteneva subito l'attenzione dell'uditorio. Corace quindi dovrebbe ricevere il compenso. Ma, assoggettandosi alle regole della tecnica da lui stesso insegnata, disputa sterilmente in eterno. Un terzo aspetto è infatti la sterilità — etica, intellettuale ed estetica — della retorica, quando da mezzo si trasforma in fine. Questo in politica ci consente di considerarla con indulgenza, come un innocuo esercizio verbale: perché serve a coprire ciò che non lo è.”

— Giuseppe Pontiggia, Prima persona, 2002.

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