Palestina dimenticata

Palestina dimenticata: la kefiah non va più di moda Umberto De Giovannangeli La kefiah non va più di moda. Per anni non c’era manifestazione internazionalista che non avesse la resistenza palestinese come stella polare: negli slogan, negli interventi, nelle partecipazioni alle feste dell’Unità, finanche nel look. I palestinesi continuano a battersi, per uno Stato che non hanno e, forse, non avranno mai. In Cisgiordania il “muro dell’apartheid” (la barriera di sicurezza per Israele) spezza territori e la quotidianità di centinaia di migliaia di palestinesi. Da oltre undici anni Gaza è una prigione a cielo aperto, assediata da Tsahal, l’esercito dello stato ebraico, e isolata dal mondo. La sofferenza è la cifra dell’esistenza di milioni di palestinesi, ma non attrae più, non sfonda nell’immaginario collettivo, non conquista più le prime pagine dei giornali o un titolo nei Tg. Eppure, se gli ingredienti che alimentano una “passione” sono l’identificarsi con la “vittima” di un’ingiustizia, se ad attrarre è l’epica del combattente, i palestinesi dovrebbero ancora “tirare”. Ma così non è. In Italia, in Europa si è ancora alla ricerca di una causa in cui spendersi, per cui emozionarsi. Causa scaccia causa. Un anno fa, l’innamoramento mediatico, ma anche nella sinistra alla ricerca di miti, era indirizzato verso le eroiche combattenti curde. Un anno dopo, come documentato da Globalist, anche questo innamoramento è sfiorito, dimenticato, rimosso. Occorre per altro ricordare che anche nella resistenza palestinese le donne non sono mai mancate. Nella prima Intifada, la “rivolta delle pietre” che, alla fine del ’97, riportò la causa palestinese al centro dell’attenzione mondiale e in cima all’agenda internazionale, le donne erano in prima fila nel contrastare l’esercito israeliano. E donne, spesso poco più che adolescenti, sono state anche protagoniste, tragiche, della seconda Intifada, "Intifada dei kamikaze”. A rimarcarlo era stata, in una intervista concessa a chi scrive, Hanan Ashrawi, figura di primo piano della leadership palestinese, oggi membro dell’esecutivo dell’Olp, da sempre paladina dei diritti delle donne nei Territori. Alla nostra domanda su cosa significhi essere donna in Palestina, Ashrawi, che è stata la prima donna portavoce della Lega Araba, ha risposto così: “Significa essere parte di un movimento di liberazione nazionale e al tempo stesso battersi per il superamento dei caratteri più opprimenti di una società patriarcale. Ecco, se dovessi operare una sintesi, direi che le donne palestinesi lottano per una doppia liberazione. E fanno questo dovendosi occupare di mandare avanti famiglie con tanti bambini e spesso da sole perché il marito o il figlio più grande sono in un carcere israeliano”. (...) Resta la “scomparsa” palestinese. Una causa diventata demodé. Il tempo di “Palestina libera, Palestina rossa” scandito nei cortei è passato. È una constatazione, non un rimpianto. Ma la politica serve, o dovrebbe servire, a costruire consapevolezza, e non fascinazione di un attimo fuggente. O di una causa che va compresa, anche problematizzata se è il caso, perché resista all’effimero del marketing mediatico.

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