Puffo

Come è l'universo psicologico dei puffi, ovvero il loro universo percettivo? Essi dicono “portami un puffo” e, a seconda della circostanza, sanno se il parlante intende un uovo, un fungo, un badile. Dunque hanno una sola espressione (“puffo”) ma un sistema abbastanza ricco di contenuti, almeno tanto vasto e articolato quanto le esperienze consentite dal loro “Umwelt” (quello che i segretari di sezione chiamano “territorio”).Potremmo addirittura supporre che in certi contesti essi dicano “portami un puffo” per chiedere un uovo, ma in altri contesti dicano l’“uovo di Puffa” per dire l'uovo di Pasqua. Quindi non è che non posseggano tutto il lessico della lingua-base, semplicemente decidono quando non usarlo, per ragioni di economia. Tuttavia l'usare una sola parola per tante cose non li indurrà a vedere le cose, tutte, unite da una strana parentela? Se è puffo un uovo, un badile, un fungo, non vivranno in un mondo dove i legami tra badile, uovo e fungo sono molto più sfumati che non nel mondo nostro e di Gargamella? E se fosse così, questo conferirebbe ai puffi un contatto più profondo e ricco con la totalità delle cose, o li renderebbe inabili ad analizzare in modo “corretto” la realtà, recintandoli nell'universo impreciso del loro villaggio senza storia? E in questo caso, la loro apparente felicità di eterni bambini non sarebbe pura mistificazione di Peyo? Forse che i puffi sono infelici? Sono tutte questioni che non mi sento di risolvere qui. Né chiedetemi di spiegare meglio i concetti tecnici con cui ho cercato di analizzare la lingua (o il linguaggio) dei puffi. Se foste dei buoni puffi non avreste bisogno di altre precisazioni, e puffereste per conto vostro. Non è solo un gioco, e se lo è, è un gioco linguistico: una cosa molto, ma molto schtroumpf. 

Umberto Eco, Schtroumpf und Drang, «Alfabeta», n. 5. settembre 1979; poi raccolto in Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983, Milano, Bompiani, 1983.

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