Sardegna e disboscamento

DEFORESTAZIONE, OVINOCULTURA, CANCELLAZIONE DEI DIRITTI COMUNI.
IN UN SECOLO L’AMBIENTE DELLA SARDEGNA FU MODIFICATO PER SEMPRE

Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, ottenne nel 1720 il possesso della Sardegna come contrappeso della perdita della Sicilia, “guadagnata” dopo la guerra di successione spagnola. L’isola, che non venne visitata da un Savoia fino al 1798, portò in dote a quest’ultimi il titolo di Re, del quale si fregiarono a distanza. A partire dagli anni '30 del Settecento la  importante che andò di pari passo con la cancellazioni progressiva di tutti quei diritti sull’uso di terreni comuni (ademprivi) che avevano garantito, per secoli, un minimo sostentamento anche alle fasce più povere della popolazione. Le foreste sarde, all’epoca rigogliose e in prevalenza ghiandifere, erano adibite, durante l'inverno, al pascolo di suini ed era proibito in molte località il taglio alla base della pianta. All’inizio dell’Ottocento secondo il “Discorso istorico politico legale dei boschi e selve nel Regno di Sardegna” il 30% dell’isola era ancora boschivo. A quel punto, però, cominciarono tagli ancora più massicci destinati ai cantieri navali della Regia Marina e alla vendita. Le proteste delle classi popolari sarde furono sistematiche e a tratti violente, tanto che le imprese che gestivano i tagli chiesero più volte alle autorità l’uso della forza per difendere i lavori. Quando già il disboscamento era in fase avanzata furono autorizzati ulteriori tagli per provvedere alle esigenze dell’Artiglieria sabauda. Lecci, rovelle, e molte altre piante arrivarono quasi a scomparire, anche perché si preferiva abbattere quelle giovani e in salute, che mostravano una migliore qualità del legno, lasciando in vita le più vecchie e malate. Tra il 1854 e il 1860, dopo aver cancellato gran parte delle foreste (tanto da dover iniziare a emanare una legislazione tutelativa dei boschi), molti comuni procedettero alla vendita di gran parte del patrimonio demaniale su cui potevano essere esercitati gli antichi diritti civici. A questo punto l’isola divenne preda delle compagnie minerarie che, insieme agli ultimi taglialegna, imposero la costruzione della rete ferroviaria e la cancellazione degli ultimi beni ad uso comune. Seguirono massicci incendi per fare posto ai pascoli e l’importazione dell’ovinocultura. Tutto ciò compromise il regime idrico regionale che risentì notevolmente anche della mancata bonifica di zone paludose. In pochi decenni l’isola aveva perso circa 80-100.000 ettari di superficie boscosa, e con essa era morto un modello di gestione dei beni comuni secolare. Responsabile di questa tragedia anche la classe dirigente locale sarda che, salvo rari casi, si era fatta cooptare all’interno del sistema di potere sabaudo e aveva svenduto i beni naturali dell’isola per qualche piccola prebenda.

Cronache Ribelli

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