Ho incontrato Shiori Itō

(...) La sua storia è questa: il 4 aprile 2015 Shiori, giornalista che all’epoca lavorava tra Tokyo e gli Stati Uniti, è a cena con un collega molto importante per parlare di lavoro. Le cose non vanno come dovrebbero e in seguito ai fatti di quella notte verrà istruito il processo per stupro più deflagrante nel Giappone degli ultimi decenni. Shiori ha in seguito scritto tutta la storia nel libro Black Box, si è esposta ed è diventata la voce più significativa del movimento #metoo che all’epoca stava cominciando ad estendersi in questa parte dell’Asia. La sua visione è quella di una donna nata in Giappone ma abituata alla vita all’estero, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Nei suoi discorsi si nota una costante comparazione tra paesi esteri progressisti, attenti alla condizione della donna, e il Giappone ostile al cambiamento sociale e saldamente nelle mani di uomini anziani. Nel frattempo il tribunale ha dato ragione a Shiori e nel 2019 il suo aggressore è stato condannato a pagarle un risarcimento. La rivista Time l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti del 2020. (...) Che cosa è successo dopo la pubblicazione del libro? Una grossa parte della società giapponese si è rifiutata di ascoltare la mia voce. C’è stata molta ostilità nei miei confronti, ho ricevuto minacce anche pesanti online e mi sono sentita così a disagio che ho preferito lasciare il paese e passare un periodo nel Regno Unito. Lì ero meno conosciuta e mi sentivo protetta. Sono comunque abituata a vivere all’estero e lo facevo già da prima dei fatti che racconto nel libro. Adesso sono a Tokyo da 6 mesi ed è il periodo più lungo che ho passato qui negli ultimi 10 anni. Pensi che chi si trova vittima di violenza sessuale subisca un senso di colpa? Sicuramente sì. La stesura del libro è durata tre mesi, ma si è interrotta per varie settimane perché ero tormentata dai dubbi. Non sapevo se fosse giusto continuare e creare dei problemi alle persone che accusavo e a quelle che mi vogliono bene. È un senso di colpa instillato nelle donne fin da piccole: se una ragazza dice di essere stata molestata si sente rispondere sempre che avrebbe dovuto scegliere meglio il modo di vestirsi, di camminare, o che se ha accettato un invito a cena se l’è cercata. Le liceali che subiscono manate sul treno tacciono perché pensano di aver causato loro la molestia. Come ha reagito la tua famiglia a tutto quello che è successo dopo la pubblicazione del libro? I miei genitori mi hanno sempre consigliato di lasciare stare e di non denunciare il mio aggressore. Poi durante tutta la durata del processo mi hanno sostenuta pur non essendo d’accordo con le mie scelte, mentre per una buona parte dei miei parenti sono ormai la pecora nera della famiglia. Io però sono convinta di avere fatto la scelta giusta, e in seguito alla mia denuncia il movimento #metoo ha preso piede in Giappone, anche grazie all’interesse mostrato dal Times. A quel punto in molti hanno cominciato a parlare di episodi di abusi di potere che avvengono regolarmente nella nostra società, non solo su donne. C’è un sistema di abusi in Giappone? Sì, decisamente. Qui il potere è gestito da una struttura maschilista che tende a duplicare sé stessa nella generazione successiva che finisce per comportarsi nello stesso modo. (...) Di fatto solo il 4% delle vittime di violenza sporge denuncia, e dopo quello che ho passato capisco bene perché, mi ci è voluto molto tempo ma adesso mi è chiaro che così non funziona e che deve cambiare l’educazione. I giovani devono capire meglio la sessualità, la propria e quella degli altri, e questo rispetto lo deve insegnare la scuola. (...) 

Flavio Parisi 

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