Dittature

Dittature: 85 anni dalla presa di Addis Abeba Oggi, ad 85 anni dalla presa di Addis Abeba, parleremo della Campagna d’Etiopia. 5 maggio 1936: la presa di Addis Abeba “Oggi 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba”. Questo il telegramma inviato a Mussolini dal Maresciallo di Pietro Badoglio, comandante del corpo di spedizione in Etiopia. In realtà la città era già stata raggiunta qualche giorno prima dagli ascari, ma comprenderete come non si potesse affidare l’entrata trionfale a dei negri. Badoglio era già stato Governatore della Tripolitania e della Cirenaica (Libia) dal 1928 al 1934, ove si era coperto di gloria assieme al suo degno sodale generale Rodolfo Graziani, Vice Governatore: i due mattacchioni organizzarono esecuzioni pubbliche dei capi dei ribelli e deportarono 100.000 individui appartenenti alle tribù seminomadi del Gebel (base attiva della resistenza antiitaliana), per i quali vennero allestiti degli insediamenti stabili atti a favorire una più moderna urbanizzazione e socialità, altrimenti detti “campi di concentramento”. Gli storici ci dicono che non si può parlare di campi di sterminio, giacché in essi non vi era nulla che fosse finalizzato in maniera preordinata alla morte degli ospiti: non si può che convenirne, anche alla luce del fatto che ben 50.000 di essi ne uscirono vivi. Non dobbiamo giudicare con gli occhi di oggi, all’epoca avere una colonia era un po’ come avere l’argenteria: magari non serve a niente, ma dà lustro alla casa. Quindi anche l’Italia (che si era fatta precedere di almeno 3-4 secoli da portoghesi, spagnoli, inglesi, olandesi), ben prima che arrivasse l’Uomo della Provvidenza si lanciò alla conquista di terre esotiche: nel 1890 la Somalia e nel 1911 la Libia. Poteva S.E. il Cavaliere Benito Mussolini non dare agli amati italiani l’occasione di mostrare, come già in passato, la loro militare vigoria? Poteva negare ai figli del patrio suolo la meritata espansione territoriale? E allora via alla conquista dell’Etiopia, partendo proprio dal fronte somalo, per unificare il cosiddetto Corno d’Africa nell’A.O.I., Africa Orientale Italiana. Italiani brava gente? Mettetevi nei panni di un ragazzo che nel 1936 si spaccava la schiena su terre pellagrose per avere a stento di che nutrirsi. Probabilmente costui, quando la coscrizione militare lo strappava a quella misera condizione per essere vestito di tutto punto, nutrito e armato, era contento di andare a sparare agli etiopi. E ancora: l’uomo che diventava assegnatario di un terreno e di una casa colonica, oppure di un impiego e di una casa popolare, sia pure in una terra che prima della partenza non avrebbe saputo indicare sulla carta geografica, era anch’egli contento. Il fatto che ciò fosse il frutto di una guerra di occupazione non turbava, essendo la guerra -fino a qualche decennio fa- una cosa del tutto naturale, figuriamoci poi se fatta contro i selvaggi. E, se non turbava le truppe, figuriamoci gli ufficiali e gli alti comandi, votati all’elitarismo che si confà alle classi egemoni. Difficile dire se le canzoni di propaganda rispecchiassero realmente il sentimento popolare. Se fra 85 anni qualche sociologo dovesse pensare che il sentimento popolare italiano del 2021 era fotografato dai reality show su isole varie e dagli spettacoli serali di varietà delle reti nazionali, mi sentirei sottorappresentato; ma, poiché esistono molti nostri connazionali che vedono questa roba e ci si divertono pure, non vedo perché dovremmo dubitare che nel Ventennio accadesse lo stesso. O morettina Gli italiani, si sa, non sono razzisti, soprattutto in fatto di donne. Oggi ne è testimonianza il melting pot offerto dall’industria del meretricio nel nostro Paese, rispetto al quale ci mostriamo assai ricettivi, certamente più di quanto lo siamo nei confronti degli immigrati di sesso maschile. All’epoca si generò un genuino sentimento nei confronti delle donne etiopi, sintetizzato non tanto nella più nota “Faccetta nera” (ove si canta piuttosto l’opera civilizzatrice del Fascismo nel solco dell’Impero Romano), quanto in questa canzone d’amore, che merita di essere trascritta integralmente: Ho trovato sul lago di Tana una bella moretta che Dede si chiama, che m’ama e m’adora: la porto in Italia, la porto in Italia! ora è povera e nuda ma quando sarà al mio paese la voglio vestire da bella signora, la porto in Italia, la porto con me! O morettina, o morettina, ti voglio vestire con una pelliccia di barba di ras! O morettina, o morettina, ti voglio vestire con una pelliccia di barba di ras! Morettina va’ nella capanna, va’ dire alla mamma se vuole lasciarti venire in Italia, ti porto in Italia, ti porto in Italia! La mia mamma mi ha dato una chicca per te perché è tanto contenta che tu mi conduca in Italia, io vengo in Italia, io vengo con te! O morettina, o morettina, potrai assaggiare le pizze, le vongole ed il panetton! O morettina, o morettina Potrai assaggiare le pizze, le vongole ed il panetton! “Addio Signor Negus, in Italia me ne vo, non mi far la faccia scura, tanto non tornerò!” “Ma perché morettina vuoi lasciarmi, ma perché, ma perché?” “Io vado laggiù a civilizzarmi! Ciao, ciao Selassié!” O macchinista fuoco al vapore, tra poche ora potrò sbarcar. Porto in Italia l’ombrello del Negus, e cinque barbe, e cinque barbe porto in Italia l’ombrello del Negus, e cinque barbe tagliate ai ras! Siamo dalle parti di “Un sacco bello”, con Carlo Verdone che parte per la Polonia con calze da donna e penne biro; oppure del turismo sessuale in Thailandia e Sudamerica; ma qui v’è una grazia maggiore, un afflato da pater familias. Divertentissima poi l’esortazione “non mi far la faccia scura” rivolta al Negus, a dimostrazione che il vero umorismo non può essere confinato negli steccati del politically correct. (...) 

A.C. Whistle

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