Una guerra civile

“Un sentimento sicuramente molto diffuso, e che alimentò la repulsione subito manifestatasi verso i fascisti repubblicani, sta nel carattere che quelli assunsero di lugubri ma sfacciati revenants. È vero, i quarantacinque giorni di Badoglio erano stati di falsa libertà, di dittatura militare, di torbidi compromessi. Ma il crollo verticale del fascismo in tanta parte dei suoi specifici apparati e dei suoi simboli era stato di natura tale da colpire gli animi come un evento dal quale mai si sarebbe potuti tornare indietro. Su questa strada la coscienza popolare aveva in ampia misura galoppato ben oltre le intenzioni, le paure e i maneggi del re e di Badoglio. Ora i fascisti resuscitati sembrava facessero, contro natura, scorrere il tempo a ritroso. Erano appena usciti dal sepolcro e subito davano ordini. I loro ostentati atteggiamenti vendicativi […], il loro scorrazzare per le città in camicia nera e con divise raccogliticce, rialzando teatralmente i simboli del regime e ripristinando i nomi fascisti di strade e piazze, la riconquista di palazzo Venezia e della sede di piazza Colonna avvenuta a Roma mimando spedizioni punitive e assalti guerreschi contro nemici inesistenti, erano tutti spettacoli che scuotevano, spaventavano e intristivano anche coloro che non avrebbero poi maturato precise scelte resistenziali. L’occhio attento di Franco Calamandrei si posò, a piazza Colonna, sulla «gente che sosta nella piazza a guardare, con un’aria tra di curiosità, di timore, di compatimento e di irrisione, e una reciproca aria d’intesa» [Calamandrei, La vita indivisibile]. Non molto diversa è la memoria di un fascista: «I passanti sui marciapiedi appena alzavano gli occhi stupiti per quella cosa così inattesa, ci cercavano con visi increduli, ma noi eravamo già lontani» [Mazzantini, A cercar la bella morte]. Il fatto che i fascisti potessero esibire di nuovo la loro prepotenza soltanto perché protetti dai tedeschi privava quella resurrezione di ogni barlume di sia pur oscura eroicità.

Certo, in questo modo i fascisti, e lo si è sopra fatto notare, si riqualificavano innanzi a se stessi e si ricaricavano contro i loro nemici. Ma si ricaricavano anche gli antifascisti, molti dei quali cominciavano a pentirsi di essere stati troppo clementi dopo il 25 luglio, di aver confuso il proprio senso di liberazione con una realtà che era invece ben più ostica e dura. In un clima «più intonato alla gioia che alla vendetta» era stato commesso un errore per troppa generosità e per incapacità di previsione: «Li abbiamo derisi, li abbiamo insultati, ed è finita lì» [testimonianze di Edovillo Caccia e di Alberto Todros]. Erano stati temuti i tedeschi ma non i fascisti. Durante i quarantacinque giorni, testimonierà dopo molti anni Ferruccio Parri, che era stato sempre vigilante sulle mosse tedesche, «la ripresa fascista non era scontata, poteva essere probabile, però devo dire che non si presentava come imminente» [Intervista sulla guerra partigiana concessa a L. La Malfa Calogero e a M. V. de Filippis].

Era comunque un errore che non andava ripetuto. «Non vi illudete con il ricordo dei quarantacinque giorni. Questa volta non la scamperete», scrisse «l’Unità» il 4 giugno 1944. E, nelle istruzioni diramate all’immediata vigilia dell’insurrezione, il vertice del PCI dichiarò: «Non possiamo fare un secondo 25 luglio». Tutta la Resistenza è attraversata da questa costante preoccupazione. «Il Combattente» scrive esplicitamente che il 25 luglio il popolo è stato troppo clemente. ”

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri (collana Universale); prima edizione: 1991. [Libro elettronico]

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