L’Asinara, l’isola dei «dannati della terra»

L’Asinara, l’isola dei «dannati della terra», la «Caienna» italiana, da tempo immemore isola-carcere per antonomasia. Adibita a colonia penale nel lontano 1885, da sempre spauracchio per i detenuti riottosi, gli irriducibili, i refrattari alla disciplina, i ribelli, i rivoluzionari, i nemici del Sistema.

Non si può capire la vicenda-Asinara senza parlare di Luigi Cardullo, classe ’35, siciliano di Patti (Messina), direttore del carcere tra il 1974 e il 1980.

Eloquentemente ribattezzato il «viceré», Cardullo viene ricordato come un sovrano, un uomo al di là di ogni illuministica ragionevolezza: lui stesso con mirabile sprezzo della sobrietà, commentava: «Il mestiere di Dio è sottopagato».

Lo ricorda così il fondatore delle Br Renato Curcio: «Una volta mi sfidò ad ucciderlo, in una di quelle sfide psicologiche che, secondo me, lo facevano sentire “uomo”. La jeep in quel momento percorreva un sentiero che sovrastava un dirupo. “Vedi Curcio”, mi disse, “se dai uno strattone allo sterzo precipitiamo e mi uccidi, ma so che non ne hai il coraggio; per questo posso permettermi di portarti con me da solo; voi parlate, parlate, ma poi…”. No guarda, gli risposi, (…) sarei anche disposto a buttarti di sotto, ma senza precipitare anche io”. Un’altra volta confidò a Curcio: “Io nella vita non ho più niente da perdere, mi rimanete voi e la mia unica soddisfazione è che da qui non riuscirete a scappare”».

Una volta venne davanti alle nostre celle e tenne una specie di sermone: “La notte non dormo perché so che voi non dormite, pensate solo a fuggire. Voi non avete le donne ma io, anche se ho mia moglie con me, non scopo, perché non mi interessa più, penso solo a voi” ricorda un altro ex Br .

All’occorrenza, Cardullo non difettava certo di cinismo, come emerge dal resoconto di un cronista del Corriere della Sera che lo aveva incontrato insieme ad una delegazione di giornalisti: «Hanno detto che alcuni detenuti per sfuggirle si sono conficcati aghi nel petto, cuciti le labbra, inghiottito manici di cucchiai. Cardullo soddisfatto commenta: “È un buon resoconto”».

Diversi detenuti raccontarono che era solito legarli alla sua jeep con una corda, per poi trascinarli fino allo stremo in giro per l’isola, a mo’ di punizione.

Proprio la denuncia effettuata da uno di loro, nel 1976, accese il dibattito pubblico sui suoi metodi poco «ortodossi». Il «viceré», per nulla intimorito, trasformò quel dibattito in uno show a mezzo stampa. Particolarmente controverse divennero le sezioni di massima sicurezza dell’isola: il «Pollaio» («la moglie di Cardullo ci aveva tenuto le galline, tanto erano degradati e angusti gli spazi »), “Fornelli” e il famigerato «Bunker»: una costruzione di cemento armato protetta da un muro di cinta e circondata da filo spinato.

Le celle, «bugigattoli di tre metri per tre in cui stavano quattro detenuti, rinchiusi ventitré ore su ventiquattro; l’”ora d’aria” avveniva in una stanza poco più grande delle celle, praticamente al chiuso».

Queste sezioni vennero scelte a metà degli anni Settanta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per custodire, in condizioni di assoluto isolamento, gli appartenenti alle organizzazioni armate, Br in testa.

Un cronista de L’Unità chiese al dottor Vindice Silvetti, da 25 anni medico del penitenziario, che cosa pensasse di quelle sezioni: «Posti infernali nei quali non vorrei mai essere rinchiuso».

Non usò mezzi termini neanche il sottosegretario alla Giustizia Raffaele Costa (ma senza far niente in proposito): «Ho visto un cimitero, uomini ridotti a cadaveri viventi, con un fiore in testa».

Nel 1978 un quotidiano come La Stampa, non certo sospettabile di simpatie anarco-insurrezionaliste, definì «inammissibili» i metodi della gestione-Cardullo: «Pestaggi e violenze diffuse; vitto rancido, acqua salata, fangosa, praticamente imbevibile». L’impressione degli altri cronisti? «Francamente inquietante (…). È come un’allucinante scatola in formato gigante, dentro c’è appena lo spazio per muoversi. Anche l’aria è tutt’altro che buona”.

Negli anni Ottanta un’inchiesta giudiziaria scoperchiò un sistema fatto di corruzione, tangenti, gioielli e microspie.

Ne 1982 infatti a Viterbo, il Viceré Cardullo, viene tratto in arresto insieme a sua moglie; i magistrati sardi, che gli contestano «gravissime irregolarità nell’assegnazione degli appalti per la ricostruzione», lo rinviano a giudizio per una lunga serie di reati: corruzione, truffa aggravata ai danni dello Stato, peculato.

Cardullo tentò di scagionarsi dalle accuse di corruzione asserendo che le ingenti somme trovate sul suo conto non erano il provento di tangenti, ma il compenso elargitogli dai servizi segreti in cambio dell’attivazione di un centro di spionaggio dei brigatisti reclusi. Tirò allora in ballo nomi illustri: lo stesso Dalla Chiesa e il suo vice Enrico Galvaligi.

Le cimici all’Asinara c’erano, questo venne appurato, ma ciò non bastò a salvarlo. Dopo la condanna inflittagli in primo grado nel 1987, infatti, il 6 giugno 1989 il Tribunale di Sassari mise la parola fine sulla sua vicenda giudiziaria, condannandolo a 5 anni e dieci mesi di carcere per corruzione, truffa ai danni dello Stato e peculato: aveva instaurato una sorta di caporalato carcerario, sfruttando la forza lavoro – gratuita – dei detenuti per poi rivendere, a privati, i generi alimentari prodotti all’Asinara.

Fonte: Sebastiano Palamara da “Spazio 70”

(Cheyenne Rebelde)

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