Cambiare paradigma economico

 “La risposta dell’Italia in tema di contrasto ai cambiamenti climatici non è all’altezza della sfida. La questione ambientale è già oggi ben più grave della pandemia. Per il clima non esiste vaccino”. 

[Intervista al climatologo Luca Mercalli a cura di Ylenia Sina] 

“Bisogna cambiare paradigma economico: la crescita infinita in un mondo finito non è possibile. Questo, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che è un fisico, dovrebbe saperlo. Però nelle sue politiche non vedo alcuna visione sistemica che metta insieme gli elementi per provare a costruire una svolta”.

Luca Mercalli, climatologo e presidente della Società meteorologica italiana, non ha dubbi: la risposta dell’Italia in tema di adattamento e contrasto ai cambiamenti climatici non è all’altezza della sfida.

Il Sesto rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc, Intergovenrmental Panel on Climate Change), pubblicato il 9 agosto scorso, è stato più duro dei precedenti nell’imputare alle attività umane la responsabilità dei cambiamenti climatici in corso. Il documento ha inoltre illustrato la possibilità che le temperature aumentino fino a 5,7 gradi entro la fine del secolo in caso di emissioni inquinanti elevate, mentre nello scenario a basse emissioni, quello considerato più favorevole, porterebbe comunque a un incremento tra l’1 e l’1,8 gradi.

Secondo lei, il dibattito in corso è all’altezza della fase geologica e biologica che la Terra sta attraversando?

"Direi proprio di no, soprattutto se lo paragoniamo alla mobilitazione che c’è stata per il Covid19. Una pandemia è certamente un fatto grave, ma nel tempo sarà risolvibile e controllabile. Abbiamo già anche un vaccino. I cambiamenti climatici e ambientali, invece, sono di un ordine di grandezza superiore perché irreversibili e non saranno curabili nel momento in cui si manifesteranno in tutta la loro dimensione. Non c’è alcun vaccino per il clima, quindi se vogliamo dimensionare la reazione della politica e della società a questa sfida dovremmo quantomeno fare dieci volte tanto quanto stiamo mettendo in campo per la pandemia. In questo momento, il problema del cambiamento climatico e della perdita della biodiversità, che peraltro è una minaccia irreversibile, vengono trattati come problemi accessori, dei quali si occuperanno, forse, gli altri in futuro. Problemi per i quali basta organizzare qualche conferenza internazionale e introdurre qualche timido segnale di politica ambientale, come il Green deal europeo. Tutte iniziative che sulla carta sono corrette, ma che restano annunci e non corrispondono mai a qualcosa che entra nelle nostre vite, cambiando comportamenti, tecnologie ed economia".

Con il governo Draghi, in Italia, il concetto di ‘transizione ecologica’ è però entrato a far parte del dibattito quotidiano. Il ministro Roberto Cingolani sembra voler puntare tutto su una risposta tecnologica. Secondo lei, le ricette messe in campo sono all’altezza della fase?

"Più che a una transizione ecologica mi sembra che si stia parlando di transizione energetica. Il ministro Cingolani non mi dà l’impressione di avere una visione sistemica dei problemi ecologici che sono estremamente pressanti e che dovrebbero dettare l’agenda. Si tratta di una ricetta di tipo tecnico. Cingolani vuole garantire lo status quo dell’economia per evitare rischi di perdita di posti di lavoro o di aumento delle tasse e mantenere una sorta di pace sociale che non venga intaccata da scelte incisive in tema ambientale. Questa, quindi, non è una transizione ecologica, ma un tentativo di conciliare il business esistente, che poi è quello che crea i danni climatici, con qualche palliativo, un pannello solare qui, una pala eolica lì. Il nocciolo della questione è invece capire che le forze naturali che stiamo aizzando con le attività umane sono enormemente più grandi di noi e possono creare, soprattutto per le generazioni più giovani, un pianeta invivibile. La posta in gioco è alta e non può essere messa a confronto con un piccolo aumento delle tasse sull’energia fossile o con qualche posto di lavoro che si perde. Posti di lavoro che tanto si perderanno comunque, perché la spinta dell’economia di mercato è quella di ridurre sempre di più il lavoro umano a favore di quello delle macchine. In questo caso non viene detto nulla: va benissimo che la tecnologia automatizzi i processi mandando a casa le persone. Quando invece si mettono in gioco posti di lavoro per i settori che creano danni climatici, allora si levano i forconi. È chiaro che i governi devono compensare la perdita di posti di lavoro nei settori nocivi trasferendoli in altri virtuosi. Un esempio: l’Ilva di Taranto. Nel momento in cui è stato dimostrato che un processo produttivo danneggia l’ambiente e la salute, si chiude e si ristruttura. A questo punto lo Stato promuove la migrazione dei dipendenti in altri settori virtuosi che devono ancora nascere come, per esempio, le rinnovabili o la mobilità elettrica. Il ministero della Transizione ecologica dovrebbe, inoltre, avere il coraggio di fermare i processi che danneggiano irreversibilmente l’ambiente. Un altro esempio: la legge contro il consumo di suolo. Se non mettiamo un freno a questi processi, non basta mettere in atto una transizione tecnologica con le energie rinnovabili. Abbiamo bisogno di scelte forti anche sul blocco dei processi che creano danni all’ambiente e una riflessione su larga scala sull’economia, perché la crescita economica non è più sostenibile. L’ha detto anche l’Agenzia europea per l’ambiente, un ente istituzionale dell’Unione europea. Quindi bisogna cambiare paradigma economico: la crescita infinita in un mondo finito non è possibile. Cingolani, che è un fisico, questo dovrebbe saperlo, però nelle sue politiche non vedo alcuna visione sistemica che metta insieme questi elementi per provare a costruire una svolta. O si procede in questo modo, o saranno solo dei palliativi temporanei.

Aggiungerei che non è semplice cambiare il sistema in un solo Paese, però un Paese si può fare promotore all’interno dell’Unione europea per cominciare a elaborare un modello economico che non sia costretto a crescere costantemente. Altrimenti non ne usciamo. Altrimenti significa solo dilazionare il problema di qualche anno. Come ha dimostrato anche l’Agenzia europea per l’ambiente, la crescita verde non esiste e il disaccoppiamento tra la crescita materiale e immateriale non è possibile. È un’illusione pensare che si possa crescere senza usare materie prime e riciclando tutti i rifiuti. Si può fare in parte, ma non è possibile arrivare al 100 per cento. Quindi bisogna agire sul modello economico e raggiungere un’economia che possa garantire benessere ai cittadini senza passare da una continua crescita nell’uso di materie prime e di energia. È chiaro che la tecnologia ci può aiutare, ma ci vuole anche un impegno etico e filosofico. Chiamiamolo un impegno culturale, a cominciare dalle persone che non possono continuare con questo tipo di aspettative verso il futuro. Ci vuole un senso del limite: è questa la grande rivelazione che andrebbe fatta alla popolazione. Questo non vuol dire che dobbiamo vivere in miseria, ma effettuare delle scelte. Invece a me sembra che si voglia fare la rivoluzione verde tenendo tutto così com’è, aggiungendo soltanto un po’ di vernice".

da Micromega

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