Desistenza

Mentre l’applicazione dell’amni­stia Togliatti apre le porte delle galere facendone uscire i fascisti processati, ha inizio una potente offensiva giudiziaria contro i partigiani. Prima soprattutto in ambito civile (tra il 1946 e il 1947) e poi in ambito penale (tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta), migliaia di partigiani finiscono sotto processo per azioni compiute durante la lotta di Liberazione, che vengono giudicate secondo il diritto comune, cioè non come atti di guerra, dunque senza prendere in considerazione le condizioni di eccezionalità determinate dal conflitto. Si arriva a valutare, ad esempio, «la fucilazione di una spia come omicidio premeditato, la requisizione di beni e viveri come rapina, l’arresto di collaborazionisti come sequestro di persona», ha scritto Michela Ponzani.
Se Dondi, per il periodo 1948-1954, calcola per l’Emilia-Romagna 234 partigiani processati (di cui 167 assolti), Ponzani propende per numeri più alti, visto che indica per la sola provincia di Modena, tra il 1950 e il 1955, 6.124 partigiani coinvolti in 1.989 procedimenti (con 3.654 assolti e 2.470 condannati). Più ancora delle cifre, però, per provare a calarsi nel clima di quegli anni è utile un esempio: il 1948, l’anno nel quale entra nel vivo questo vasto “processo alla Resistenza”, è lo stesso in cui – l’11 ottobre – compare come imputato davanti alla prima Sezione speciale della Corte di assise di Roma il maresciallo Graziani, il capo delle forze armate della Rsi. Due anni dopo è libero. Le sue memorie, in vendita nelle librerie proprio dal 1948, con il titolo eloquente Ho difeso la patria, diventano un vero e proprio best seller. 
Già due anni prima, nell’ottobre del 1946, Piero Calamandrei – da poco eletto all’Assemblea costituente come rappresentante del Partito d’azione – nota con amarezza un cambiamento quasi fisicamente palpabile, l’affermarsi nel sentire comune di un atteggiamento che chiama «desistenza»: 

Ciò che ci turba – scrive – non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo. Che tornino in libertà i torturatori e i collaborazionisti e i razziatori, può essere una incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo. Il suo allarme, piuttosto, deriva dalla constatazione che l’onda lunga della Liberazione si è ormai infranta e che nella sua risacca riemergono comportamenti creduti sconfitti per sempre: Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede. I partigiani? una forma di banditismo. I comitati di liberazione? un trucco dell’esarchia* […]. 

*Desistenza, «Il Ponte», 1946, 10, ora in Mario Isnenghi, Dalla Resistenza alla desistenza. L’Italia del «Ponte» (1945-1947), Laterza, Roma-Bari 2007, p. 240. La parola «esarchia» allude alle sei forze politiche antifasciste facenti parte (a livello nazionale) dei Cln: democristiani, liberali, demolaburisti (ovvero i membri della Democrazia del lavoro), comunisti, socialisti, azionisti.

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Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, Laterza (collana I Robinson / Letture), 2021.

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