Riflessioni sul Bene

Horacio Verbitsky, il grande giornalista argentino accusatore del regime di Videla e autore delle più scioccanti rivelazioni sul destino dei desaparecidos, ha dato del giornalismo una definizione radicale: “giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda”. Si potrebbe sostenere, con un po’ di impudenza, che ciò che il giornalismo militante fa contro la repressione, la letteratura lo fa contro la rimozione inconscia (“letteratura è esprimere ciò che l’io non vuole che si sappia…”) – intendendo per “io”, naturalmente, anche l’io sociale e collettivo. La verità letteraria è la verità del desiderio, cioè non è verità: è un campo di tensioni in cui ogni asserzione può essere rovesciata, ogni no può valere come un sì, dietro ogni oggetto può apparire la sua derisione, il mito più sanguinario può essere salvifico o viceversa, ogni minima procedura può trasformarsi in un rito, il tempo può ristagnare o cessare di esistere. Tutto questo si ottiene con la Forma, ovverosia con la Bellezza – che non è estetismo ma quasi il suo contrario, attacco a qualunque Bellezza precedente, ricerca di una parola (o di una struttura, o di una figura) profonda, plurivalente, nemica di se stessa; una lingua che non può ospitare nessun luogo comune, se non “mettendolo in situazione” e sfruttandolo narrativamente. Nonostante l’equazione ipnotica di Keats, e la disperata opposizione di Leopardi, forse bisogna ragionevolmente concludere che Vero e Bello né coincidono né si oppongono: stanno su piani logici inconfrontabili, hanno due “statuti” diversi. Il Bello non ha a che fare col Vero, e nemmeno col Bene – la letteratura può dare cittadinanza a Satana, mentre il giornalismo non può permetterselo. Anche il giornalismo, è ovvio, deve utilizzare una logica emotiva per attuare quella che di solito si chiama la “mozione degli affetti” – ma deve controllare bene questa possibilità retorica per evitare contraccolpi indesiderati. La suggestione è pericolosa sui giornali: se scrivo che Carminati ha telefonato al compagno di Ornella Muti, avvocato, per chiedergli una consulenza che quello per altro ha rifiutato, devo stare attento che una lettura frettolosa, o il passaggio in un sito distratto, non faccia giungere alla conclusione che la Muti è coinvolta in Mafia Capitale. E devo calibrare le parole trattando di cronaca nera, per non incoraggiare fenomeni imitativi e non creare fake characters, surrogati parodici del mito che durano lo spazio di dieci o venti talk show (Bossetti mostro, Brizzi maiale, Stacchio eroe). Altro che eternità e archetipi, stereotipi con la miccia corta. Non so dove, né quando, ho ascoltato Gad Lerner raccontare un aneddoto del periodo in cui era vicedirettore della «Stampa» di Torino: Yitzhak Rabin fu assassinato la sera del 4 novembre 1995 e l’inviata per «La Stampa» in Israele (Fiamma Nirenstein) gli telefonò sconvolta, piangendo; Lerner ricorda di averle detto “prima scrivi, poi piangi”. Così, credo, deve fare un giornalista: garantire l’informazione immediata e non lasciarsi vincere dalle emozioni. Ma credo anche che a uno scrittore (poniamo, un romanziere), in una situazione analoga si dovrebbe dare il consiglio opposto: “prima piangi tutte le tue lacrime, e solo quando sarai certo di non averne più puoi cominciare a scrivere”. 

Walter Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli (collana Narrativa italiana), 2021. 

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