Gappisti

Senza volersi addentrare nel dettaglio di un nodo tanto intricato del dibattito pubblico, serve però guardare alla posizione, diffusa allora come oggi, che carica sulle spalle dei gappisti romani la responsabilità dell’eccidio compiuto dai tedeschi alle Fosse Ardeatine. Peraltro impiegando tra gli elementi a sostegno di questa lettura un’accusa infamante per quei partigiani, cioè di aver avuto la possibilità di evitare la strage e di non averla colta. Secondo quest’accusa, i gappisti si sarebbero sottratti vigliaccamente alla richiesta di consegnarsi – quale via offerta per fermare la rappresaglia – rivolta dal Comando tedesco, a mezzo di manifesti affissi in città, ai responsabili dell’attentato di via Rasella. Un argomento falso puntualmente smontato dalla ricerca storica, sulla base di dichiarazioni più che credibili, perché rese dagli stessi tedeschi (Kappler, ad esempio, nel processo che si apre a suo carico nel 1948 afferma di aver tenuto nascosta la strage per timore di una reazione da parte dei partigiani o della popolazione della capitale). E, ancor prima, la diceria si mostra per quello che è dal momento che la notizia della strage si apprende solo a cose fatte, con un comunicato stampa del Comando tedesco che viene diffuso il giorno successivo (il 25 marzo) e che si chiude con parole inequivocabili: «L’ordine è già stato eseguito», non a caso divenute il titolo perfetto per il volume di Alessandro Portelli che più approfonditamente ha studiato questi eventi. La ricerca smentisce inoltre la percezione distorta di un massacro che si abbatte su civili del tutto estranei alla lotta partigiana: l’“Atlante delle stragi”, infatti, per le Fosse Ardeatine, su 335 vittime, identifica 87 partigiani, 100 antifascisti, 67 ebrei (tra i quali alcuni partigiani), 9 militari, 11 carabinieri, e 61 persone non riconducibili a una categoria specifica. Le carceri, qui come altrove, per i tedeschi (e per i fascisti) sono come un serbatoio da cui prelevare gli ostaggi su cui compiere le rappresaglie e rigurgitano di combattenti e di oppositori. Qui come altrove, dunque, quando i gappisti – e più in generale le formazioni partigiane – compiono un attacco sono consapevoli che possono mettere a repentaglio vite altrui oltre alla propria: sanno che esiste il rischio di coinvolgere civili estranei alla battaglia, ma sanno anche che un rischio ancora maggiore pende sulle teste dei compagni di lotta che sono stati fatti prigionieri. I resistenti, quindi, mettono in pericolo in primo luogo sé stessi.

Il falso argomento secondo cui ai gappisti romani è stata data la possibilità di consegnarsi per scongiurare la rappresaglia è disarmante, inossidabile com’è a qualsiasi confutazione, con l’idea dei fantomatici manifesti periodicamente rilanciata sui giornali, in televisione e in Rete anche grazie agli sviluppi giudiziari di quegli eventi che si sono trascinati nei decenni (basta pensare ai processi a carico di Erich Priebke). Ma a ben vedere poggia su qualcosa di più profondo. Con una logica che si irrigidisce quanto più i fatti si allontanano nel tempo, si tende a saldare l’azione gappista con la rappresaglia, come se fossero un unico evento, mentre sono e restano due eventi distinti, «collegati da una decisione politico-militare». È una riflessione di Portelli, illuminante nella sua semplicità: la strage è una scelta deliberata, non è la inevitabile e meccanica conseguenza dell’attacco di via Rasella. Chi programma l’attacco gappista, com’è ovvio, non ignora che potrà esserci una reazione e, ad azione realizzata, dato il suo esito eclatante, può certamente prevedere una risposta feroce: non le sue proporzioni. 

Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, Laterza (collana I Robinson / Letture), 2021. [Libro elettronico]

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