Politica ladra

L'uomo che permise alla magistratura milanese di compiere la prima mossa di quella che sarebbe diventata la più grossa e clamorosa inchiesta di corruzione politico-amministrativa, sicuramente, nell'intera storia della Repubblica italiana, si chiama Luca Magni, piccolo imprenditore, proprietario di un'impresa che aveva in appalto la pulizia quotidiana dei locali alla Baggina, come da sempre i milanesi chiamano familiarmente il Pio Albergo Trivulzio, antico ricovero di vecchi. Luca Magni versava a Mario Chiesa le sue periodiche tangenti, secondo la regola. Finì però con l'accorgersi che quel peso finanziario stava diventando insopportabile per il suo modesto bilancio. Così decise — gli costasse quel che doveva costare — di rivolgersi al magistrato. Raccontò ogni cosa. Il magistrato, Antonio Di Pietro, gli propose di collaborare: e alla prima successiva scadenza, quando cioè dovette consegnare all'ingegner Mario Chiesa una nuova rata del consueto versamento indebito, Magni si presentò al direttore del Trivulzio munito di un microfono spia nascosto nel risvolto della giacca. La tangente pattuita doveva essere di 14 milioni [di lire], ma il proprietario dell'impresa di pulizie si presentò con una valigetta che conteneva solo la metà della somma. Il dialogo che si svolse fra i due sulle ragioni per cui il pagamento era parziale, e sui modi attraverso cui sarebbe stato completato, giunse, mediante la microspia indossata dal mite signor Magni, al registratore della polizia che stava in attesa fuori. Quando gli agenti irruppero nell'ufficio di Chiesa, il mariuolo ebbe il tempo di alzarsi dalla sedia, nascondersi nel bagno contiguo e far scomparire nel water altri trenta milioni, di provenienza ovviamente losca; ma la valigetta con i sette milioni che Luca Magni gli aveva appena consegnato era ancora lì, e ciascuna delle settanta banconote era stata firmata dal giudice Di Pietro e dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani. La prova della concussione era vistosa, anche se la modestia della cifra — sette milioni, rispetto ai quindici miliardi che nei giorni successivi gli inquirenti sequestrarono a Mario Chiesa in svariati conti correnti, soprattutto svizzeri — è un altro degli elementi grotteschi di questo abominevole scandalo italiano. […] Quando Chiesa si convinse che i risultati dell'inchiesta a suo carico erano andati ben al di là dei sette maledetti milioni di Luca Magni, e che la magistratura aveva scoperto i forzieri dei miliardi abusivamente incassati, per i quali il direttore del Trivulzio espletava il ruolo di collettore e distributore, capì che, se avesse taciuto, avrebbe pagato lui solo per tutti i corrotti e corruttori di Milano e dintorni. Così cominciò a parlare, e disse molto, sacrificando all'altare della propria difesa anche l'amicizia — di cui era andato così fiero — con Craxi e i suoi familiari. E fu come in quel curioso giochetto coreografico, fatto con le pedine rettangolari del domino, messe in piedi l'una dietro l'altra in una lunga teoria di cerchi fantasiosamente disegnati. Basta far cadere la prima perché tutte cadano in suggestiva successione armonica. Alcuni degli imprenditori che, per procurarsi appalti di lavori pubblici, avevano pagato il «pizzo» destinato ai partiti, preferirono confessare il loro reato prima che il loro nome fosse fatto da altri, e il cerchio si andò allargando. Riemersero così anche tutte le scottanti verità che le precedenti inchieste avevano lasciato a mezzo. 

Sergio Turone, Politica ladra. Storia della corruzione in Italia 1861-1992, Laterza (collana I Robinson), 1993²; pp. 338-40.

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