L'affaire Moro

 Sarebbe pazzesco da parte nostra collocare le Brigate rosse in una sfera di autonoma e autarchica purezza rivoluzionaria che si illuda di muovere le masse a far saltare le strutture politiche che le contengono; e sarebbe ancor più pazzesco che loro vi si collocassero. La loro ragion d’essere, la loro funzione, il loro «servizio» stanno esclusivamente nello spostare dei rapporti di forza: e delle forze che già ci sono. E di spostarli non di molto, bisogna aggiungere. Di spostarli nel senso di quel «cambiar tutto per non cambiar nulla» che il principe di Lampedusa assume come costante della storia siciliana e che si può oggi assumere come costante della storia italiana. Operazione di puro potere, dunque; che si può soltanto svolgere in quell’area interpartitica in cui, al riparo dai venti ideologici, il potere ormai vive. Non si vuole con ciò escludere che l’esistenza delle Brigate rosse sia appunto «pazzesca»: ma quando dalla pazzia comincia ad affiorare un metodo, è bene diffidarne: come Polonio di quella di Amleto (ma non ne diffidò abbastanza: e così non sia di noi). E il metodo è proprio dall’affaire Moro che comincia ad affiorare.

Che quella delle Brigate rosse sia una follia non priva di metodo, tutti lo dicevano e lo dicono. Ma è dalla vicenda di Moro, e attraverso le sue lettere, che si comincia a intravederne il disegno. Come Polonio, Moro, prigioniero e condannato a morte, ha cercato e poi seguito il filo del metodo in quello che dapprima gli sarà parso un labirinto di follia. E già nella prima lettera a Zaccagnini si ha l’impressione che ne abbia scoperto il capo, quando dice: il Partito Comunista «non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a costruire». E nella seconda: «Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata… Ricorda in questo momento – deve essere un motivo pungente di riflessione per te – la tua straordinaria insistenza e quella degli amici che avevi a tal fine incaricato – la tua insistenza per avermi Presidente del Consiglio nazionale (del partito), per avermi partecipe e corresponsabile nella fase nuova che si apriva e che si profilava difficilissima». Ed è da notare come, al tempo stesso che si considera così atrocemente ripagato dal governo che si era tanto adoperato a costruire, da quella operazione, da quella «fase nuova», tenda a prendere distanza: non artefice, ma «partecipe»; non responsabile, ma «corresponsabile».

Il punto di consistenza del dramma, la ragione per cui a Moro si deve in riconoscimento (in «riconoscenza») la morte sta appunto in questo: che è stato l’artefice del ritorno, dopo trent’anni, del Partito Comunista nella maggioranza di governo. E le Brigate rosse non solo gliene fanno esplicita imputazione nei loro comunicati, ma ne danno con funebre ardimento la solenne e simbolica rappresentazione facendo ritrovare il suo corpo tra via delle Botteghe Oscure, dove ha sede il Partito Comunista Italiano, e piazza del Gesù, dove ha sede la Democrazia Cristiana “

Leonardo Sciascia, L'affaire Moro - con aggiunta la Relazione Parlamentare, Adelphi (collana Piccola Biblioteca Adelphi n° 332), 2012¹⁴  ; pp. 138-140.

[1ª edizione: Sellerio, 1978]

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